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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/111

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Et eloquente, provida, et esperta
     Nel saper colorir la sua ragione,
     Quanto è meglio, dicea, di fare offerta
     D’opre, che sian tenute utili, e buone,
     À questa miglior Dea sicura, e certa,
     Che gir con l’altre credule persone,
     Che fanno honore à un’ huom, ch’ un Dio si finge,
     Secondo il troppo ber le sprona, e spinge.

E se vogliam la non grave fatica,
     Men grave haver, non stiam tacite, e mute:
     Ma ogn’una in giro una novella dica
     Di cose più notabili accadute.
     Perche l’historie de l’etate antica
     Fan le persone accorte, et avvedute,
     E sono al viver nostro essempi, e specchi,
     E grati cibi à gli ociosi orecchi.

Lodano assai quel, che la prima ha detto,
     Quel piacer di virtù lor posto avante
     Le donne, e pregan lei, ch’ à tal diletto
     Principio dia, che ne sà tante, e tante.
     Ella, à cui sovenia più d’un soggetto
     Cangiato in belve, in pesci, in sassi, e ’n piante,
     Ne comincia una, e poi si pente, e tace,
     Ne risolver si sà qual più le piace.

Pensò dir pria, sì come Dirce madre
     Di chi fu à la militia sì rivolta,
     Ch’andò à ferir le mal concordi squadre
     Con una treccia sparsa, e l’altra avolta,
     Fù da le vaghe luci alme, e leggiadre
     D’un Siro à l’amoroso laccio colta,
     E fermò tanto in questo amore il piede,
     Che chi fondolla à Babilonia diede.

E come seco poi sdegnata forte,
     C’havesse sì impudico havuto il core,
     Ch’ad un’ huom non suo par, ne suo consorte,
     Donato havesse il suo non casto amore;
     Scacciò l’amante, e pensò dar la morte
     À la figlia, che n’hebbe, e ad un pastore
     La diede, il qual (secondo ella gl’impose)
     Quella à le fiere in un deserto espose.

E come il gran dolor così la mosse
     D’haver ceduto à sì lasciva sete,
     Ch’in un profondo stagno al fin gittosse,
     Per attuffar questa memoria in Lete,
     Là dove in novo pesce trasformosse,
     E le genti di Siria, poco liete
     De la perdita sua, ch’à tutti spiacque,
     S’astennero da’ pesci di quell’acqua.

E come in mezzo à quello stagno avaro,
     Che sì ricco thesor lor nascondea,
     Un grande, e nobil tempio le fondaro,
     Ch’una biforme imago in mezzo havea.
     Però che in parte donna la formaro,
     In parte pesce, e fu lor patria Dea,
     E come il tempio, e la biforme imago
     Diede un gran nome al Palestino lago.

Ma perche Alcitoe à più cenni s’accorse,
     Che nota à tutte l’altre era tal cosa,
     Che nel proporla ogn’una il ciglio torse,
     E s’accennar, ch’à lor non era ascosa,
     Dir non la volle, e stette un pezzo in forse
     Tutta dubbia fra se, tutta pensosa
     Se dovea dir quel, ch’à la figlia avenne,
     E come si vestì di bianche penne.

Che l’innocente figlia, et infelice,
     Cui destinato havean vita sì corta,
     Ch’esser dovea sì grande imperatrice,
     Non fu da fiere divorata, ò morta:
     Ma le colombe fur la sua nutrice,
     La sua vera custodia, e la sua scorta,
     Le pie colombe i suoi lamenti udiro,
     E fur da pietà vinte, e la nutriro.

E poi che ’l suo gran seggio hebbe fondato,
     E retto il regno suo ben quarant’anni,
     Sentendo, che ’l figliuol veniva armato
     Con infinito essercito à suoi danni,
     Commise à tutti i capi del suo stato,
     Ch’obedissero al figlio, e in tanti affanni,
     In tante pene, in cui vedeano starla,
     Venner le sue nutrici à consolarla.