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Venner le pie colombe, e dier conforto
À l’affannata, e combattuta donna,
E poi, che ’l suo infortunio hebbero scorto,
Che nel suo imperio non saria più donna,
Pensar condurla in più tranquillo porto,
E di piume vestir la regia gonna,
Questa le diè due penne, e quella due,
E volò poi con le nutrici sue.
E se dier bando à pesci i Siri allhora,
Che la sua madre un’ altra forma ottenne,
S’astenner poi da le colombe anchora,
E con le squame venerar le penne.
Questa favola Alcitoe hebbe à dar fuora,
Ma, perche sapean l’altra, si ritenne,
L’altra, che precedette à queste cose,
Ne la volle contar, ne la propose.
Che le par verisimil, che se sanno
Dirce nel lago pesce esser novello;
Sappiano anchor de l’ impiumato panno
De la sua figlia diventata augello.
Hor mentre tutte l’altre attente stanno
Per udir qualche fatto ignoto, e bello;
Di novo un ne propon, poi si condanna,
Che crede che no’l sappiano, e s’ inganna.
Volle di Naide dir, che de gl’incanti,
E del valor de l’herbe à pien s’intese,
E fu d’aspetto sì gentil, che quanti
La vider mai del suo bel lume accese.
Onde fu tal la copia de gli amanti,
Che di ciò altiera à nullo amor s’arrese,
Non merti, prieghi, versi, oro, ò valore
La poter far già mai serva d’Amore.
Anzi l’eran così venuti à tedio
I prieghi, i premij, i versi, i canti, e i suoni,
Che fe (per torsi un sì noioso assedio)
Incanti à questo appropriati, e buoni.
Ahi troppo in core human crudel rimedio,
Che tolse à lor sì preciosi doni.
Fù in muto pesce ogni amator converso,
E perdè il suono, il canto, il priego, e ’l verso.
Questa, come novella ascosa approva
Alcitoe, e l’altre ad ascoltarla invita.
E ben l’havea per peregrina, e nova,
Che l’havea poco prima ella sentita.
Ma la propone à pena, che ritrova
Che l’han per cosa assai volgare, e trita
L’altre, che la pregar con caldo affetto
Che le piacesse di cangiar soggetto.
Ne sol disser saper quel, che diss’ella,
Come Naide cangiò gli amanti suoi,
Ma quel, che fe più lunga la novella,
Ch’à quella incantatrice avenne poi.
E à te crudel, d’ogni pietà rubella
Convenne al fin provar gl’ incanti tuoi,
Che ti fecer portar degno supplicio
Di sì crudele, e scelerato officio.
Perche come ad Alcitoe confermaro
Le donne, poi che quei saltar ne l’acque,
E pesci di più sorte diventaro,
Come à l’iniqua incantatrice piacque:
Tutti gli altri il paese abbandonaro,
Che l’infelice caso non si tacque,
Per tema ogn’un di quel dominio s’esce,
Per non amarla, e trasformarsi in pesce.
E dove prima ogn’un correr solea
In questa, e in quella parte per mirarla:
Ogn’un poi l’abhorriva, e s’ascondea,
Ogn’un più che potea fuggia d’amarla.
Quando s’accorse al fin, ch’ogn’un temea
Di lei, ch’ogn’un fuggia per ischivarla,
Pentita, fu costretta far più stima
Di quei, che tanto in odio hebbe da prima.
E confidando in quei miseri amanti,
Per non gir sempre abbandonata, e sola,
A cui dopo mille querele, e pianti,
Havea tolta l’effigie, e la parola;
Pentita, torna à gl’infelici incanti,
Et à se stessa anchor la forma invola:
Fra dure squame il suo bel corpo asconde,
E per viver con lor salta ne l’onde.