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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/113

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Ben è del maggior lume orbo, e insensato
     Chi regger non si sà ne la grandezza,
     Che per haver ne gli altri imperio, e stato,
     Ogn’un li viene à noia, ogn’un disprezza,
     Ch’ei vien da tutti al fin tanto odiato,
     Ch’ogn’un cerca fuggirlo, alcun nol prezza.
     Ei, che si vede abbandonato allhora,
     Chi pria schernì, con sua vergogna honora.

Tutto disser saper come passasse
     Quel fatto l’altre à la maggior sorella.
     Et anchor, che ciascuna l’approvasse
     Per una elettion morale, e bella:
     Non di men la pregar, che ne contasse
     Un’ altra al tutto incognita novella,
     Che sà, ch’al genio human par, che più giove
     Pascer l’alma, e ’l desio di cose nove.

Parve, ch’Alcitoe s’arrossisse alquanto,
     Ó che vergogna la prendesse almeno,
     Non ritrovando historia dal suo canto,
     Ch’à le sorelle dilettasse à pieno.
     Si stà tacita un poco, e pensa in tanto,
     E dopo allenta à la sua lingua il freno,
     E dir propon del Gelso in prima essangue,
     Che si fe dentro, e fuor tutto di sangue.

Girò le luci, e pose à l’altre mente,
     E al mover de la fronte, e de le ciglia,
     Conobbe, che la favola presente
     Sarebbe grata à tutta la famiglia.
     E rivocando ogni minutia à mente
     À questa col pensier tutta s’appiglia,
     Questa per fine al suo parlar prefisse,
     E tacque tutte l’altre, e questa disse.

Ragiona, e intanto industriosa, e presta
     Toglie la forma al lin, che in fil risorge.
     È ver, ch’alquanto il suo parlare arresta,
     Mentre l’humido al fil la lingua porge:
     E tanto lin la man sinistra appresta,
     Quanto chiederne à lei la destra scorge;
     L’una il toglie à la canna, ond’ha il sostegno,
     E l’altra in filo il volge, e dallo al legno.

Come da l’una man l’altra si toglie,
     Girar fa il fuso, e và più che può lunge,
     Quel nodo, ch’è cagion, da lui poi scioglie,
     Che mai la terra non percote, ò punge.
     E dopo intorno al fuso il fil raccoglie,
     Tanto, ch’à l’altra man si ricongiunge,
     Dove con novo nodo il fil l’afferra,
     Perch’al novo girar non cada in terra.

Mentre sì dotta la maggior sirocchia
     Rende à la Dea l’intempestivo offitio,
     E veste il fuso, e spoglia la conocchia,
     E l’altre invoglia à sì degno essercitio;
     Et hor le serve, hor le sorelle adocchia,
     Che del diletto lor vuol qualche inditio,
     Un dir, che in dolce suon l’aria percote,
     Ciba l’orecchie lor di queste note.

Ne la città magnanima, che cinse
     Colei, ch’oltre al valor tanto hebbe ingegno,
     Che morto il suo marito il sesso finse,
     E come suo figliuolo ottenne il regno,
     Due nobili alme un forte nodo avinse
     D’amor sì caro, e precioso pegno,
     Che ’l Sole ovunque il mondo alluma, e vede,
     Non vide tal beltà, ne tanta fede.

Piramo l’un dì questa coppia bella,
     E l’altra il nome Tisbe havea sortito.
     L’un tenero garzon, l’altra donzella,
     Egli idoneo à la sposa, ella al marito.
     Lor case eran congiunte, e questa, e quella
     Commune un muro havean, ch’era sdruscito:
     E ver, che ’l fesso in parte era riposto,
     Ch’à tutti gli occhi anchora era nascosto.

Fra i più lodati giovani del mondo,
     Non fu allhor nel più accorto, ne ’l più bello,
     Ne di parlar più dolce, e più facondo,
     Ne ch’ invitasse più gli occhi à vedello.
     Il volto grato, angelico, e giocondo
     Non dava indicio anchor del primo vello,
     Ne saprei dir chi s’havesse più parte
     Nel grato viso suo Venere, ò Marte.