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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/122

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Renditi veste, à me dolce, et humana,
     Si ch’ io ti abbracci, e contentar ti dei,
     Ch’io baci questo sangue, e questa lana,
     Poi ch’abbracciar non posso, e bacciar lei.
     Deh lascia homai crudel Leon la tana,
     E non venga un sol, ma cinque, e sei,
     E s’à la moglie mia sepolcro sete,
     Me di tal gratia anchor degno rendete.

Ma ben si mostra un’ huom di poco core,
     Quando cerca d’haver d’altrui la morte,
     Dovrebbe un, ch’arde di perfetto amore,
     Mostrarsi ardito in qual si voglia sorte.
     Io n’hebbi colpa, io sol commisi errore,
     Io le feci lasciar le patrie porte,
     E se pur che venisse, io facea stima,
     Doveva esser più accorto, e venir prima.

E se venia il Leone à l’onda fresca,
     Forse c’havrei lui morto, e lei difesa,
     E se pur’ io di lui fossi stato esca,
     Havrei salvata lei da tale offesa.
     Ma vo, che vegga anchor qlunto m’ incresca,
     Quanto n’habbia dolor, quanto mi pesa,
     Ch’al comparir di lui non mi trovassi
     Per mostrar che valessi, e quanto amassi.

Conosca al mio morir l’alma sua degna
     Di quanto, e quale affetto è ’l mio cor punto,
     Che se in un core immenso amor non regna,
     Non suol l’huom mai condursi à questo punto.
     E perche la mia man voglio, che spegna
     La luce mia, conosca, che se giunto
     Io fossi à tempo, à stimar poco havea
     La vita in caso, ov’io vincer potea.

Appoggia in terra il pomo de la spada
     Per far, che con la punta il petto offenda.
     Deh lumi de l’eterna alta contrada
     Oprate, che qualcun quel pianto intenda,
     Che per vetar, che sù l’acciar non cada,
     A questo ponga indugio, e gliel contenda,
     Che Tisbe già lasciato have lo speco,
     E lieta vien, che vuol godersi seco.

E poi c’huomini, e Dei questo non fanno,
     Che fate piante voi, voi che ’l vedete?
     Che non cavate lui di tanto affanno?
     Che non li dite quel, che visto havete?
     Movete le radici à tanto danno,
     E lui co i rami per pietà tenete.
     Potete voi soffrir, che perda il giorno
     Sì perfetto amator, giovan sì adorno?

E tanto più, che se ’l tenete alquanto,
     Ogni poco di tempo, ogni momento,
     Non fu già mai sotto ’l celeste manto
     Più fortunato sposo, e più contento:
     Che la sua bella Tisbe viene intanto
     Per dirgli il suo timore, e ’l suo spavento,
     Vuoi dirgli ove fuggisse, ove sia stata,
     E come dal Leon si sia salvata.

Il miser disperato s’abbandona
     Quando nol prende alcun, ne gliè conteso,
     E lascia ruinar la sua persona
     Sopra il pungente acciar con tutto ’l peso.
     L’ignuda spada sua pungente, e buona
     Ch’ogni altro havria più volentieri offeso,
     Non può fuggir di far quel crudo effetto,
     E passa al suo Signor la veste, e ’l petto.

Come se danno ad una valle un fonte
     Acque, che vengan chiuse in un condotto,
     Che in abondanza calan giù d’un monte,
     Se un poco, ove è più basso, il piombo è rotto,
     Manda in su l’acqua, e fa, che in aria monte
     La canna, che forata è più di sotto,
     Che l’onda, che in giù preme, e vien contraria,
     Fa, ch’al ciel s’alza, e stride, e rompe l’aria:

Così del molto sangue, che sì mosse
     Per voler aiutar le parti offese,
     Quando il misero amante si percosse,
     Quel, che corse al soccorso, tanto ascese,
     Che fece quelle gelse tutte rosse,
     Ch’à l’arbor testimonio erano appese,
     E ’l piè tanto di lui venne à cibarse,
     Che sempre i frutti poi di sangue sparse.