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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/123

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Senza haver ben lasciata la paura
     La donna vien con non sicuro piede,
     Ch’ogni pensiero ha posto, et ogni cura
     Di non mancar de la promessa fede.
     Giunge vicino al fonte, e raffigura
     L’arbor dove ha d’andar: ma quando vede
     I frutti bianchi suoi d’altro colore
     In dubbio stà di non pigliar errore.

Ó sventurata, e dove ti conduce
     Il pensier, c’hai di servar bene il patto
     Per poter con l’udire, e con la luce
     Contentare ancho il sì cupido tatto.
     Ahi quanto mal per te sì chiara luce
     La Luna consapevole del fatto,
     Che spande così chiara il suo splendore
     Per mostrarti il tuo inganno, e ’l tuo dolore.

Tu speri al giunger tuo, che ’l bello aspetto
     Debbia far l’occhio tuo contento, e lieto;
     Che debbia il parlar dolce, e pien d’affetto
     Dare à l’orecchio il cibo consueto;
     Speri baciarlo, e prender quel diletto,
     Che non potesti prender per l’adrieto;
     E speri ancho trovar paesi esterni,
     E goderti con lui poi molti verni.

Ma tu vorresti haver, quando il vedrai,
     Misera al giunger tuo cieca la vista:
     E le poche parole, ch’udirai,
     Faran l’orecchia tua dolente, e trista.
     Quel poco tempo morto il bacerai,
     Che fia co’l corpo tuo l’anima mista,
     E i verni, che farai seco soggiorno,
     Non soffriran, che vegga il primo giorno.

Va da quell’arbor misera discosto,
     Cerca per l’orme ove il Leon s’annida,
     Tanto, che trovi dove stà nascosto,
     E non ti curar punto, che t’uccida.
     Ó ne la fronte fa cieca più tosto
     La luce, che t’alluma, e che ti guida;
     Misera, ad ogni mal prima t’ inchina,
     Che veggan gli occhi tuoi tanta ruina.

Hor come meglio i frutti, e l’arbor vede,
     E che non fosser tai pur sì rimembra,
     Scorge, che la vermiglia terra fiede
     Un, che sì muor con le tremanti membra.
     Torna pallida, e smorta à dietro il piede,
     Tanto, ch’un bosso il suo color rassembra,
     E pian trema al principio, come il mare,
     Cui cominci lieve aura à far gonfiare.

Ma poi se ’l vento cresce, e ’l mar tormenta
     Tanto, che tutto il rompa, apra, e confonda,
     Fa, che ’l suo duol con più romor si senta,
     La rotta, et agitata, e torbida onda:
     Così poi, che la donna mal contenta
     Vede, che ’l suo mal cresce, e soprabonda,
     E raffigura il suo marito fido,
     Fa sentire il suo duol con maggior grido.

Sentir fa l’alta, e dolorosa voce,
     E si batte la man, si batte il petto,
     Al volto smorto, à i capei biondi noce,
     E mostra in mille modi il grande affetto.
     Al corpo amato poi corse veloce,
     E l’abbracciò con suo poco diletto,
     Sparse d’amaro pianto il corpo essangue,
     E temperò col lagrimare il sangue.

Bacia più volte il suo pallido volto,
     E chiama l’amor suo più, che può forte,
     Dolce Piramo mio chi mi t’ha tolto?
     Rispondi à l’infelice tua consorte.
     Chi da la vita tua lo stame ha sciolto,
     Qual fato ò qual cagion ti die la morte?
     Rispondi à chi tu sai, che tanto t’ama,
     A la tua cara Tisbe, che ti chiama.

Al nome dolce, à la promessa fede
     Leva Piramo allhora i languidi occhi,
     E subito, che lei conosce, e vede,
     Par, che dubia allegrezza il cor gli tocchi.
     E tal forza al parlar la voglia diede,
     Che disse, che la veste, il velo, e i fiocchi,
     E l’ornamento suo di sangue tinto,
     Con l’orme del Leon l’haveano estinto.