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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/129

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Troppo gran gelosia gli entra nel petto,
     Quando di novo oppon la mano, e ’l panno,
     E che concede il suo divino aspetto
     À quei, che’ à lei da man sinistra vanno.
     E tutto pien d’ invidia, e di sospetto,
     Fà lor quel, che far puote, oltraggio, e danno.
     E come alcun di lor mirarla ardisce,
     Gli dà i raggi ne gli occhi, e l’impedisce.

Mai non la perde d’occhio, ovunque vada,
     E non si cura più d’andar si forte.
     Giunge Leucotoe in capo de la strada,
     E già preme co piè le regie porte.
     Il Sò più co’l pensier di fuor non bada,
     Ma l’attende à man manca entro la corte,
     E poi che ’l tetto à lei grat’ombra porge,
     Sempre ha qualche spiraglio, onde la scorge.

Acceso Sol, che co’l tuo raggio ardente
     Tutte quante le cose abbruci, e cuoci,
     Hor sei bruciato, et ardi parimente
     Et à te, et à noi più caldo nuoci.
     Non vuoi si fermi in lei l’occhio, e la mente,
     Che i tuoi volin destrier tanto veloci,
     E mentre per mirar non cangi loco,
     Infiammi il giorno à noi di doppio foco.

S’à mensa siede, ò pur parla, e discorre,
     Ó passa il tempo in qual si voglia guisa,
     Sempre un raggio solar la dentro corre,
     E di quel, ch’ella face, il Sole avisa.
     Quell’occhio, il qual dovria per tutto porre,
     Tutto in un luogo il caldo amante affisa,
     L’occhio, che riguardar debbe ogni parte
     Dal bel viso di lei già mai non parte.

Quelle hore si noiose, e tanto ardenti,
     Quando percote à Borea il Sol la fronte,
     Ch’ardon di caldo il cielo, e gli elementi,
     E che all’ombra d’un’ arbore, ò d’un monte
     Fan, che ’l pastor si posi, e s’addormenti,
     Rimembrano l’incendio di Fetonte,
     E ne fanno i mortai qualche bisbiglio,
     Ch’auriga sia qualche inesperto figlio.

Nessun per gran negotio, che s’havesse,
     Seguire osava allhor il suo viaggio,
     Ma convenia, che nell’albergo stesse,
     Fin che fosse men caldo il solar raggio.
     Non era vento in aria, che potesse
     Spirare, anzi ciascun provido, e saggio,
     S’era per non restar dal Sol bruciato
     Ne le caverne d’Eolo ritirato.

Ogni huom và ne la stanza più sotterra,
     Ogn’ huom cerca al suo mal qual puote, aviso,
     E poco vi mancò, ch’allhor la terra
     Non sollevasse il polveroso viso
     Al Re, che l’arme di Vulcano atterra,
     Che quel, che stà nel solar carro assiso
     Punisse, pure anchor stà dubia, e aspetta,
     Per non venir sì tosto à tal vendetta.

Ben molti san, che ’l Sol co’l Cancro stando,
     Convien, che sopra noi più alto monte,
     E che i suoi raggi sian più caldi, dando
     À piombo quasi ne la nostra fronte.
     E che sia il giorno anchor più lungo, quando
     Il maggior arco è sopra l’orizonte,
     Pur tanto hoggi arde, e lungamente dura,
     Ch’à tutti par, che passi ogni misura.

Se sapesser nel cor come tu cuoci,
     E ’l mirar lei di quanto ti contenti,
     S’ à gli animali, à gli elementi nuoci,
     E se mandi i tuoi rai soverchio ardenti,
     E se fai, che i destrier van men veloci,
     Forse ti scuserian l’offese genti:
     Ma poi che ’l fin non veggon del tuo sguardo,
     T’accusan, che tu vai crudele, e tardo.

Se nessun può soffrir l’empia facella,
     Che rende il mezzo dì cotanto acceso,
     Come farà la misera donzella,
     Verso cui tutto il lume ha sempre inteso.
     Ne la più bassa stanza stassi anch’ ella,
     E ’l volto asciuga dal sudore offeso,
     E con le penne fa del vago augello
     Di Giunon vento al viso humido, e bello.