Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/133

Da Wikisource.

Là dove molte havea donne, e donzelle
     L’appartamento riccamente ornato,
     Le più ricche, più nobili, e più belle,
     C’havesse tutto il suo felice stato.
     La figlia si levò, levarsi anch’elle
     Al dir d’un paggio, ch’era innanzi entrato,
     Che venia la Reina à ritrovarla,
     E ver la porta andò per incontrarla.

Come s’ incontra l’uno, e l’altro lume,
     L’accorta figlia subito s’ inchina,
     E quel fa honore al trasformato Nume,
     Che suol far quando incontra la Reina,
     E con lodato, e nobile costume
     Del viso solamente il ciglio china,
     China molto il ginocchio, adagio, e à tempo,
     E ne l’alzarsi pon l’istesso tempo.

Di quà, di là s’inchina ogni donzella,
     E tutte à tempo, e ne la stessa guisa.
     La finta madre ne la figlia bella,
     E ne gli atti suoi nobili s’affisa.
     Lieta l’accoglie, e bacia, e le favella,
     E degnamente ove conviensi assisa,
     Alzando il ciglio ad una vecchia disse,
     Che tosto di quel luogo ogni altra uscisse.

Come fu senza testimoij intorno,
     (Come solea la madre alcuna volta)
     Così ragiona il formator del giorno
     Verso di lei, che riverente ascolta.
     Quel puro lume io son, che ’l cielo adorno
     Del più chiaro splendor, che vada in volta,
     Io son quel Dio, la cui splendida luce
     Fà, che la Luna, et ogni stella luce.

Io son quel Dio, per cui la terra, e ’l cielo
     Vede ogni cosa, io son l’occhio del mondo,
     E tiemmi acceso il cor d’ardente zelo
     L’alma beltà del tuo viso giocondo.
     E che sia il ver questo mentito velo
     Mi toglio, e à gli occhi tuoi più non m’ascondo.
     E in un batter di ciglio si trasforma,
     E torna il Sol ne la sua propria forma.

Al primo suon, che la donzella intende,
     Che quel, che de la madre have il sembiante,
     È ’l chiaro Dio, che ’n terra, e ’n ciel risplende,
     E come amor di lei l’ ha fatto amante;
     Improviso stupor tutta la prende,
     E vuol dir non so che tutta tremante;
     Come ne l’esser suo poi vede il Sole,
     Perde i sensi, i concetti, e le parole.

E pria, che ’l resentito sentimento
     Desse vita à lo spirto stupefatto,
     Havea già il Sole havuto il suo contento,
     E dato à pieno il suo diletto al tatto.
     Ella con pianto, e tacito lamento
     Si doleva del Sol, c’havea mal fatto.
     Ma il Sole in fatto, e ’n detto oprossi tanto,
     Ch’al fin le fe cessar la doglia, e ’l pianto.

E poi fa sì, che la contenta figlia,
     Che tal la vede, per madre l’appella.
     Poi torna con la solita famiglia,
     Ma, dove il Re si stava, entra sola ella.
     Dove invisibil fassi, e ’l camin piglia
     Verso la stanza sua superba, e bella.
     Sì spesso vi và poi senz’esser madre,
     Che Clitia se n’accorge, e ’l dice al padre.

È tanto il grande amor, che Clitia porta
     Al Sol, ch’un tempo amante fu di lei,
     Che resta per invidia mezza morta
     Quando vede lasciarsi per costei.
     Discopre il tutto al padre, e poi l’essorta,
     Che secondo la legge de’ Sabei
     Sepolta viva sia, tal che ’l suo scempio
     Sia per l’altre donzelle eterno essempio.

Come la Ninfa invidiosa prova
     Lo stupro à l’ infelice suo parente,
     E sà di sorte oprar, ch’egli la trova
     Del corpo violata, e de la mente;
     Non senza gran dolor la legge approva,
     Che condanna la vergine nocente.
     E se ben n’ ha pietà, fà, che sotterra
     Sia posta in un giardin fuor de la terra.