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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/132

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L’hore del sonno in pensier passi, e in pianti,
     E fai Sol come gli altri innamorati,
     E poi t’addormi, e lasci i viandanti,
     E gli altri, che t’aspettan disperati.
     Sol questo tuo indugiar piace à gli amanti,
     Che con piacer si tengono abbracciati,
     I quai vorrian, così contenti stanno,
     Che questa notte anchor durasse un’ anno.

Stupisce ogn’un, c’homai lo Dio non giunga,
     Al cui novo apparir l’aria s’aggiorna,
     Ne ad alcun par, che notte cosi lunga
     Nascesse mai da le caprigne corna.
     Non aspettate anchor, che i destrier punga,
     Ne vi maravigliate se non torna,
     Che tutta notte hanno perduto il sonno
     Gli occhi, c’hor dal dormir tor non si ponno.

Come si sveglia, e leva, e l’aria vede,
     E che da l’hore matutine intende,
     Come l’Aurora è già gran tempo in piede,
     E discaccia le tenebre, e l’attende.
     Le ricche veste, i raggi, e i destrier chiede,
     Si veste in fretta, e sopra il carro ascende,
     Sorge, et al primo dà nel regio tetto,
     Che gli nasconde il suo maggior diletto.

Non ardea sì star sopra l’orizonte
     Ne la calda stagion, quando potea
     Il vago viso, e le bellezze conte
     Vedere in ogni parte che volea:
     Quanto brama hor coprir l’aurea sua fronte,
     Che come vuol l’offesa Citherea,
     Vuol gire à riveder (che si rimembra
     Del piacer, che li dier) l’ignude membra.

Accusi pure il Sol, sia chi si voglia,
     Ch’ei troppo avaro sia de la sua luce,
     Che poco ei se ne cura, che lo voglia
     À l’interesse proprio il riconduce.
     Vuol la donna veder quando si spoglia,
     E di tal vista contentar la luce,
     Ne si cura, s’alcun di lui si dole
     Che toglia così tosto al giorno il Sole.

Giunto, si fa invisibile, e ritorna,
     E lei mira, e vagheggia insino à tanto,
     Che de le ricche veste si disorna,
     Poi vede à l’alma un più leggiàdro manto.
     Indi si parte, e posa, e tardi aggiorna,
     Ma non gli viene occasione intanto
     Di far quel, che desia, ne mai gli venne,
     Fin che co’l Toro il suo camin non tenne.

Allhor vede una sera, che la madre
     Ha cosa à far (ch’Eurinome s’appella)
     Un lungo tempo co’l marito, e padre
     De l’amata da lui vergine bella.
     Le disposte di lei membra leggiadre,
     Tosto si veste, e si trasforma in ella.
     E come in sala appare, ogn’un s’inchina
     Credendola ciascun la lor Reina.

In quella adorna stanza il Sol pon mente,
     Dov’egli ha posto il trasformato piede,
     Et una bella, et honorata gente
     Di degni huomini, e donne aspettar vede.
     Passeggia l’huomo, e dà l’occhio sovente
     Verso la donna, che in disparte siede,
     Piace à la donna, e tien la luce bassa,
     E con gran dignità mirar si lassa.

De la gente confusa, e non distinta,
     Quella aspettava il Re, la moglie questa,
     Compare in tanto la Reina finta,
     E si china ogni pie, scopre ogni testa.
     La corte de la donna urtata, e spinta
     Da se medesma và, quell’altra resta.
     Ogn’un s’appressa, e luogo si procaccia,
     Ch’à l’ entrar la Reina il vegga in faccia.

Più d’un s’inchina, e cosa che gl’importa
     Chiede humilmente, et ella con quell’arte,
     Ch’Eurinome suol far, con lor si porta,
     Et hor questo, et hor quel tira da parte,
     E giustamente come l’altra accorta,
     À quei, ch’ella ama, il suo favor comparte;
     E poi con poca, e più degna famiglia
     Se n’entra ove sedea la bella figlia.