Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/135

Da Wikisource.

La Ninfa, ch’al padre Orcamo scoperse
     L’error, che fe con l’ invide parole,
     Colei, che in si degno arbor si converse,
     Non hebbe mai più gratia appresso il Sole,
     Ch’ei più non la guardò, più non sofferse
     Tentar d’haver di lei diletto, ò prole.
     Ne la scusa accettò, che ’l troppo amore
     Cader l’havesse fatta in tanto errore.

Come ella vide tanto disprezzarsi,
     E non poter mai più con lui sperare
     Nel già felice letto consolarsi,
     Come in miglior fortuna usò di fare,
     Cominciò da le Ninfe à ritirarsi,
     Senza fonte gustar, senza mangiare,
     Si scapigliò, stè su la terra ignuda,
     A l’aria hor chiara, hor bruna, hor dolce, hor cruda.

I suoi giorni digiuni eran già nove,
     E ’l fonte, che gustava, era il suo pianto,
     E la rugiada, che l’Aurora piove
     Il cibo, onde nutriva il carnal manto.
     Sol si vedea voltar l’afflitta dove
     Vedea girar l’amato Sole, e intanto
     Fean nel terren le sue membra infelici
     L’allhor non conosciute herbe, e radici.

Converte il corpo suo pallido in herba,
     Ma il pallido color non l’è già tolto,
     Che ne la foglia anchora il ramo il serba,
     Rosso è ’l color del fior, non però molto.
     Mostra hoggi anchor la sua fortuna acerba,
     Gira à l’amato Sol l’afflitto volto,
     Fassi Elitropio, e al Sol si volge, come
     Risuona à punto il trasformato nome.

Poi che Leucotoe di Leucotoe disse,
     E del novo arbor l’odorato effetto,
     E che in quell’herba Clitia convertisse,
     Ch’anchor rivolge al Sol l’afflitto aspetto.
     Ne la terza sorella ogni altra affisse
     Le luci, onde attendean novo diletto,
     La qual mentre parlar le due sorelle,
     Si venne à proveder di più novelle.

Dal padre fu costei detta Minea,
     Che dovea dar di se l’ultimo saggio,
     E ’n dispregio di Bacco anch’ella havea
     La luce al dipanar volta, e ’l coraggio.
     Un panno doppio la manca premea,
     Onde il filo al gomitol fea passaggio,
     La destra fea del filo, al fil coperchio,
     E la palla vestia di cerchio in cerchio.

Facea questo lavor prima ascoltando,
     Mentre le due sorelle novellaro,
     L’una con l’ago in man, l’altra filando,
     Secondo l’essercitio à lor più caro.
     Et hor facea il medesmo novellando,
     Con dolce favellar, distinto, e chiaro,
     E le prime parole accorte, e honeste,
     Che l’usciron di bocca, furon queste.

Io non vorrei contar qualche argomento,
     Che per ventura poi non vi piacesse,
     Ó per saperlo, ò per l’altrui tormento,
     Che ’l vostro dolce cor troppo movesse.
     Per far dunque ogni cor di me contento,
     Io vo, che l’eleggiate da voi stesse,
     Più cose io proporrò, degna ciascuna,
     E voi farete elettion poi d’una.

Di Dafnide io dirò l’Ideo pastore,
     C’havendo di due Ninfe accesa l’alma,
     Quella in sasso il cangiò, che del suo amore
     Non potè riportar l’amata palma:
     Ó del cangiato di Sciton valore,
     C’hebbe hor di donna, hor d’huom la carnal salma.
     E se questa vi piace, io dirò, come
     Lunga hor la barba havesse, hora le chiome.

Ó di Giove dirò di Celmo amante,
     Dove un fanciullo ad un fanciullo piacque,
     E come trasformollo in un diamante,
     E da che madre questo sdegno nacque.
     Se questa non vi piace andrò più avante,
     E dirò de’ miracoli de l’acque,
     Conterò de’ Cureti, et in che foggia
     Creati fur da tempestosa pioggia.