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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/14

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E tu, se ben tutto hai l’animo intento
     Invittissimo Henrico al fero Marte,
     Mentr’io sotto il tuo nome ardisco, e tento
     Di figurar sì bei concetti in carte,
     Fammi del favor tuo tal’hor contento,
     Che le tue gratie à noi largo comparte:
     Che s’esser grato à te vedrò il mio carme,
     Farò cantar le Muse al suon de l’arme.

Pria che ’l ciel fosse, il mar, la terra, e ’l foco;
     Era il foco, la terra, il cielo, e ’l mare:
     Ma ’l mar rendeva il ciel, la terra, e ’l foco,
     Deforme il foco, il ciel, la terra, e ’l mare.
     Che ivi era e terra, e cielo, e mare, e foco;
     Dove era e cielo, e terra, e foco, e mare:
     La terra, il foco, e ’l mare era nel cielo;
     Nel mar, nel foco, e ne la terra il cielo,

Non v’era chi portasse il novo giorno
     Col maggior lume in Oriente acceso.
     Ne rinovava mai la Luna il corno,
     Ne l’altre stelle havean lor corso preso.
     Ne pendea la terra intorno intorno
     Librata in aere dal suo propio peso.
     Ne ’l mare havea col suo perpetuo grido
     Fatto intorno à la terra il vario lido.

Quindi nascea, che stando in un composto
     Confuso il cielo, e gli elementi insieme,
     Faceano un corpo infermo, e mal disposto
     Per donar forma al mal locato seme:
     Anzi era l’un contrario à l’altro opposto
     Per le parti di mezzo, e per l’estreme.
     Fea guerra il leve al grave, il molle al saldo,
     Contra il secco l’humor, co’l freddo il caldo.

Ma quel, che ha cura di tutte le cose,
     La Natura migliore, e ’l vero Dio
     Tutti quei corpi al suo luogo dispose
     Secondo il proprio lor primo desio.
     D’ intorno il cielo, e nel suo centro pose
     La terra, indi dal mar la dipartio;
     E ’l passo aperto , onde essalasse il foco,
     Se ne volò nel piu sublime loco.

Prossimo à lui s’avicinò primiero
     L’aer de gli altri piu veloce, e leve,
     Che quanto è il mar piu del terren leggiero,
     Tanto ei del foco è piu tardo, e piu greve.
     Quindi nel centro il suo piu proprio, e vero
     Luogo la terra piu densa riceve.
     L’ultima parte, che resta, è de l’onda,
     Che d’intorno il terren bagna, e circonda.

E dove fur ne l’union nemici,
     E cercar farsi sempre oltraggio, e scorno;
     Ne la disunion restaro amici,
     Poi ch’ognun fu nel suo proprio soggiorno,
     E partorir quell’opre alme, e felici,
     Onde il mondo veggiam sì bello, e adorno,
     Et à far sì bei parti et infiniti,
     Sol la disunion gli fece uniti.

Poi che ’l tutto dispose à parte à parte,
     Qual fosse de gli Dei quel, che v’intese,
     Acciò che fosse uguale in ogni parte,
     La terra in forma d’una palla rese.
     Poi fe, che l’acque fur diffuse, e sparte
     D’intorno, e dentro, per ogni paese,
     Lasciando isole, e terre, e quinci, e quindi
     A gli Sciti, à gl’Iberi, à gl’Afri, e à gli Indi.

E di ridurla in miglior forma vago,
     La terra ornò di mille cose belle,
     Quinci un gran stagno, e quindi un chiaro lago,
     Là selve ombrose, e quà piante novelle.
     Fe correr piu d’un fiume errante, e vago
     Fra torte ripe in queste parti, e ’n quelle;
     Tanto che giunto in più libero nido,
     Percote in vece delle ripe, il lido.

Fece i morbidi prati ornati, e belli
     D’herbe, e di fiori, e bianchi, e rossi, e gialli;
     I freschi chiari, e limpidi ruscelli
     Gire irrigando le feconde valli;
     I colli ameni di varij arbuscelli
     Fregiati d’erti, e poco usati calli;
     E sorger gli alti e faticosi monti,
     Quel nudo, e questo pien d’arbori, e fonti.