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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/142

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Nel mezzo stà de le tremende porte
     L’ultimo de gli horrendi, e che più noce,
     Dico la cruda, et implacabil Morte,
     Che dona tutte l’ alme à quella foce.
     Fà fra le gambe sue l’anime smorte
     Passare, e con la falce, e con la voce
     Hor quest’anima, hor quella afflitta, e grama,
     Ch’andar non vi vorrebbe, afferra, e chiama.

Fa la falce passare à mille à mille
     Gli huomini incauti giunti in quella parte.
     E ciascun da città, da campi, e ville
     Senza saper dov’ha d’andar si parte.
     Ne guidan de la guerra l’empie ancille
     Con honori, e donar la maggior parte.
     Ne guida assai de l’huom cruda nemica
     La cupida Avaritia, e la Fatica.

Ma poi che quegli appresenta la Guerra
     A l’empia morte, che di là gli passi,
     O qual si voglia mal, tosto gli afferra
     La falce, e più ritrar non ponno i passi.
     Il corpo poco stà, che si fa terra,
     E l’anima entra dentro, e quivi stassi.
     Dove secondo le passate vite,
     Ne fa giudicio la città di Dite.

Giunon si fa invisibile, e s’asconde,
     Vola sopra la morte, e dentro vede
     Un’ olmo ricco, e pien di rami, e fronde,
     Sopra un grosso, alto, e ben fondato piede.
     Qui (se la fama antica al ver risponde)
     I fantastichi sogni hanno la sede.
     Ne stà per ogni fronde una gran torma,
     D’ogni più strana, e non veduta forma.

Sotto quei sogni chimerosi, e vani
     Stanno i Centauri, e v’è Scilla biforme.
     Con quel, c’ha cento piedi, e cento mani,
     Stà la Chimera horribile, e difforme.
     V’è l’Idra, e gli altri mostri horrendi, e strani,
     C’han non usate, e spaventose forme.
     La Dea, lasciando quei, drizza la fronte
     A la nera palude di Caronte,

Qual da più region l’acque de fiumi
     Son senza che ’l mar cresca, al mar condotte
     Cosi da varij vitij, e rei costumi
     Si guidan l’alme à la perpetua notte.
     Et à l’ombre di tanti estinti lumi
     Capaci sempre son l’inferne grotte,
     Ogni giorno infinite ve ne vanno,
     Ne l’inferno s’allarga, e pur vi stanno.

Come lasciata han la terrestre spoglia,
     Passan volontier l’ombre à l’altra arena,
     Che di saper di là ciascun ha voglia
     Qual le darà Minos merito, ò pena.
     Pregan tutte il Nocchier ch’entro le toglia,
     Ma quegli altre ne lascia, altre ne mena.
     L’anime che non passan (che son molte)
     Son quelle, c’hanno l’ossa non sepolte.

Passa l’ascosa Dea con infinite
     Anime, che i lor corpi hanno sotterra,
     E giunge, e vede la città di Dite,
     Che da tre mura si circonda, e serra.
     Di serpi cerca poi le Dee crinite,
     Come ha il cupido pie dentro à la terra,
     Che stanno dentro à guardia de le porte
     Del crudo carcer de le genti morte.

La non veduta Dea pria che si scopra,
     Se ben l’odio la sprona al primo intento
     Riguarda come ogni huom quivi s’adopra,
     E di quei che non han pena, ò tormento.
     Gli esercitij, ch’al sol fecer di sopra,
     Fan quivi al lume tenebroso, e spento,
     Un privato, un maggiore, un più meschino,
     Secondo che di quà diede il destino.

Non sta molto à guardar, ch’altro le preme,
     E le veste invisibili via tolle,
     E del carcer le porte, ove si geme,
     Percote, e ’l can trifauce il capo estolle.
     Abbaia, e manda tre latrati insieme,
     Ne il triplice abbaiar mai lasciar volle,
     Ma poi che ’l divin Nume hebbe veduto,
     Fe di quel gran latrare un gemer muto.