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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/16

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Senza esser rotto, e lacerato tutto
     Dal vomero, dal rastro, e dal bidente,
     Ogni soave, e delicato frutto
     Dava il grato terren liberamente.
     E quale egli venia da lui produtto,
     Tal se ’l godea la fortunata gente,
     Che spregiando condir le lor vivande
     Mangiavan corne, e more, e fraghe, e ghiande.

Febo sempre più lieto il suo viaggio
     Facea, girando la superna sfera,
     E con fecondo, e temperato raggio
     Recava al mondo eterna primavera.
     Zefiro i fior d’Aprile, e i fior di Maggio
     Nutria con aura tepida, e leggiera.
     Stillava il mel da gli Elci, e da gli Olivi.
     Correan nettare, e latte i fiumi, e i rivi.

Ó fortunata età, felice gente,
     Che ti trovasti in così nobili anni,
     C’havesti il corpo libero, e la mente
     Questa da rei pensier, quel da tiranni:
     Dove era almen securo l’innocente
     Da gli odij, da l’invidie, e da gl’inganni.
     Beato, e veramente secol d’oro,
     Dove senza alcun mal tutti i ben foro.

Poi che al piu vecchio Dio noioso, e lento
     Dal suo maggior figliuol fu tolto il regno,
     Seguì il secondo secol de l’argento
     Men buon del primo, e del terzo piu degno;
     Che fu quel viver lieto in parte spento,
     Ch’à l’huom convenne usar l’arte, e l’ingegno,
     Servar modi, costumi, e leggi nove,
     Sì come piacque al suo tiranno Giove.

Egli quel dolce tempo, ch’era eterno,
     Fece parte de l’anno molto breve,
     Aggiungendovi state, autunno, e verno,
     Foco empio, acuti morbi, e fredda neve.
     S’hebber gli huomini allhor qualche governo
     Nel mangiar, nel vestire, hor grave, hor leve,
     S’accommodaro al variar del giorno
     Secondo ch’era ò in Cancro, ò in Capricorno.

Già Tirsi, e Mopso il fier giuvenco atterra
     Per porlo al giogo, ond’ei ne mugghia, e geme.
     Già il rozzo agricoltor fere la terra
     Col crudo aratro, e poi vi sparge il seme.
     Ne le grotte al coperto ogn’un si serra,
     Overo arbori, e frasche intesse insieme.
     E questo, e quel si fa capanna, ò loggia
     Per fuggir sole, e neve, e vento, e pioggia.

Dal metallo, che fuso in varie forme
     Rende adorno il Tarpeio, e ’l Vaticano,
     Sortì la terza età nome conforme
     À quel, che trovò poi l’ingegno humano,
     Che nacque à l’huom si vario, e si difforme.
     Che li fece venir con l’arme in mano
     L’un contra l’altro impetuosi, e fieri
     I lor discordi, ostinati pareri.

À l’huom, che già vivea del suo sudore
     S’aggiunse noia, incomodo et affanno
     Pericol nella vita, e ne l’honore,
     E spesso in ambedue vergogna, e danno;
     Ma se ben v’era rissa, odio, e rancore,
     Non v’era falsità, non v’era inganno:
     Come fur ne la quarta età più dura,
     Che dal ferro pigliò nome, e natura.

Il ver, la fede, e ogni bontà del mondo
     Fuggiro, e verso il ciel spiegaro l’ali:
     E ’n terra usciro dal tartareo fondo
     La menzogna, la fraude, e tutti i mali.
     Ogni infame pensiero, ogni atto immondo
     Entrò ne crudi petti de mortali;
     E le pure virtù candide, e belle
     Giro à splender nel ciel fra l’altre stelle.

Un cieco e vano amor d’honori, e regni
     Gli huomini indusse à diventar tiranni.
     Fer le ricchezze i già svegliati ingegni
     Darsi à i furti, à le forze, et à gl’inganni,
     À gli homicidij, et à mille atti indegni,
     Et à tante de l’huom ruine, e danni,
     Che, per ostare in parte à tanti mali,
     S’introdusser le leggi, e i tribunali.