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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/165

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Perseo intanto gli Heroi di quella mensa
     (Per proveder se può di qualche scampo)
     In filo con grand’ordine dispensa,
     E tutto prende per traverso il campo,
     Squadra gli huomini, e l’arme, e mentre pensa
     Come meglio ordinar puote il suo campo,
     Giunge una freccia ingiuriosa, e presta,
     E fora à lui le falde de la vesta.

Fin da l’estremo Gange era venuto
     Ati, un paggio di Fineo illustre, e bello,
     E forse un simil mai non fu veduto
     Da la natura fatto, ò dal pennello,
     Da ch’egli nacque havea il Montone havuto
     Dal Sol sedici volte onato il vello,
     E solea ornar si vago aspetto, e divo
     D’un vestir non men ricco, che lascivo.

Vada pur dove vuol, da tutti gli occhi
     D’huomini, e donne à se tira lo sguardo.
     Altri non è, che meglio un segno tocchi,
     Quando egli lancia un pal di ferro, ò un dardo,
     Nel far, che giusto al punto un telo scocchi,
     Nel mostrarsi à caval destro, e gagliardo.
     E ’n tutto quel, che fà, mostra tal gratia,
     Che vista mai di lui non resta satia.

Trovossi Perseo appresso al ricco altare,
     Dove fer sacrificio ad Himeneo,
     E vedendo un gran legno anchor fumare,
     Il prese, e l’aventò contra Fineo.
     Hor mentre il vuol d’un salto egli schivare,
     Colse contra la mente di Perseo
     Nel vago viso, e d’ogni gratia adorno,
     Mentre egli à l’arco anchor tendeva il corno.

Fra la fronte, e la tempia fu percosso
     Il misero garzon dal lato manco,
     E non bastò al carbon far nero, e rosso
     Di sangue il volto suo splendido, e bianco;
     Ma gli ruppe la fronte insino à l’osso,
     E batter fe in terra il petto, e ’l fianco,
     E dopo un rispirar penoso, e corto
     Il misero restò del tutto morto.

Quando il vede cader Licaba, un Siro,
     Il qual l’amava assai più che se stesso,
     Fà con un doloroso alto sospiro
     Conoscere à ciascun, che gli è da presso,
     Ch’egli hà di quel morir maggior martiro,
     Che se fosse il morir toccato ad esso,
     À piangerlo l’ invita il duol; ma l’ ira
     À la vendetta, et à la morte il tira.

E ben mostrò l’amor non esser finto,
     Che ’l nervo, che quel misero havea teso,
     A punto in quel momento, che fu estinto,
     Prese di rabbia, e di furor acceso,
     Lo strale incocca, e poi, che l’arco ha spinto
     Co’l braccio manco più, che può disteso,
     Tira il cordon co’l destro, e pria, che scocchi,
     Drizza à l’istesso segno il dardo, e gli occhi.

Scocca la freccia, e batte in aria l’ale,
     Lo guarda il mesto Siro, e grida forte,
     Tutto ’l ciel non farà, che questo strale
     Non vendichi la sua con la tua morte.
     E quando l’arco suo non sia mortale,
     T’ucciderò con arme d’altra sorte,
     C’hai scolorato un viso il più giocondo,
     Che fosse mai veduto in tutto ’l mondo.

Schiva egli il colpo, e quel, che trasse, vede,
     Che di novo minaccia, e l’arco tende,
     Lascia le squadre unite, e giunge, e fiede
     Il Siro, e d’un mandritto il capo fende.
     Quel gira, e và, ne può tenersi in piede,
     E in tanto nel garzon le luci intende,
     Gli cade appresso, e se felice chiama,
     Che muore à canto à quel, che cotanto ama.

Dal Greco a pena il Siro fu percosso,
     Che Fineo, e mille suoi tutti in un punto
     Se gli aventaro con mille arme addosso,
     Ma à tempo ei ritirossi, e non fu punto.
     Hor l’uno, e l’altro essercito s’è mosso,
     E quel del Moro, e quel del Greco è giunto.
     L’un Duca addosso à l’altro altier si serra,
     E sono i primi à cominciar la guerra.