Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/171

Da Wikisource.

Ó Dei (rispose allhora una di quelle)
     Ben saremmo felici, e in pregio havute,
     S’ad opre più magnanime, e più belle
     La vostra non v’ergesse alta virtute,
     E fra le vostre timide sorelle
     Fossero le vostre arme conosciute,
     Si che le menti nostre, e caste, e pure
     Da l’insolentie altrui fosser sicure.

Il tempio, il fonte, il sito, e l’aere è grato,
     Lo studio alto, e divin del nostro carme.
     E sarebbe felice il nostro stato
     Se voi foste fra noi con le vostr’arme.
     Non è mai dì, che qualche scelerato
     Contra la nostra castità non s’arme,
     Che vedendoci imbelli hà ogn’un coraggio
     Di machinarci insidie, e farci oltraggio.

Di Tracia venne in Focide un tiranno
     Il maggior non fu mal sopra la terra,
     E prese con la forza, e con l’ inganno
     Daulia, una populata, e ricca terra.
     Non credo, che regnato havesse un’ anno,
     Che mosse à le tue suore un’ altra guerra,
     E batter le costrinse in aria i vanni,
     Per via fuggir da suoi troppo empi inganni.

Andando noi verso Parnaso un giorno
     Per porger voto al suo famoso tempio,
     N’ingombra tutto il ciel di nubi intorno
     Un’ austro, che si leva oscure et empio.
     N’invita intanto à far seco soggiorno
     Per far di tutte un vergognoso essempio
     Questo crudel, che Pirenio nomosse,
     Fin, che la pioggia, e ’l giel passato fosse.

Noi, che veggiam d’oscuri nembi il cielo,
     E di grandine, e pioggia esser coperto,
     Mosse dal minacciato horrore, e gielo,
     E da l’invito in quel bisogno offerto,
     Tanto, che quell’oscuro, e horribil velo
     Havesse à l’atra pioggia il grembo aperto,
     Ó volto al nostro cielo havesse il tergo,
     Crediam noi stesse al suo non fido albergo.

N’invita intanto il suo pensier malvagio,
     Ch’appar nel volto amabile, e modesto
     À veder de l’ ignoto à noi palagio
     Lo stupendo artificio, ond’è contesto.
     E havendo da quel tempo horrido ogni agio
     Con parole cortesi, e modo honesto
     Seppe far si, ch’à rimirar la pioggia
     N’andammo ne la sua più alta loggia.

Ma poi che l’Aquilon chiaro, et altero
     Comparse in giostra con il torbido Austro,
     E ’l fece con quel nembo oscuro, e nero
     Nasconder sotto ’l mar nel noto claustro,
     E tutto rallegrò questo hemispero
     Lo scoperto del Sol lucido plaustro,
     Lui ringratiammo col migliore aviso,
     Che san le nostre lingue, e ’l nostro viso.

Ben che ’l Barbaro rio noi conoscesse.
     E Clio, Calliope, e me chiamasse Dea;
     Non però vidi, ch’ei riguardo havesse
     Al divin, che n’eterna, e che ne bea.
     Un van desio di noi l’alma gli oppresse,
     E perche chiuse già le porte havea,
     Cercò di farne forza, e ne convenne
     Se volemmo fuggir, vestir le penne.

Battiam veloci, e snelle in aria l’ale,
     E lasciam l’empio hostel, cerchiamo il pio.
     Lo sciocco allhora, e misero mortale
     Non s’accorgendo, ch’ei non era un Dio,
     Ne prevedendo il suo propinquo male,
     Mosso dal troppo ardente empio desio,
     Saltò fuor de la loggia al volo intento,
     E fidò ’l corpo suo più grave al vento.

Con la parte celeste al cielo aspira
     Per seguir noi l’amante iniquo, e stolto,
     Ma la terrea virtù, ch’in terra il tira,
     Fà, ch’à l’antica madre ei batte il volto.
     Da lui lo spirto in poco tempo spira,
     E ver l’inferno và libero, e sciolto,
     Del sangue ingiusto havendo il terren tinto
     Il corpo, pria che fosse in tutto estinto.