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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/172

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Mentre l’accorta Musa anchor ragiona
     De la caduta del crudel tiranno,
     À tutte un gran romor l’orecchie introna
     Di molti augei, ch’al ciel le penne danno.
     Corron per tutto il bel monte Helicona,
     Poi volan sopra un faggio, e lì si stanno.
     E senza mai tener la lingua muta
     Guarda ogni augel Minerva, e la saluta.

Prima, che gli vedesse, ella pensosse,
     Ch’un’ huom da l’arbor ragionasse seco,
     Quando il saluto pio, che ’l ciel percosse,
     Fe l’ idioma suo conoscer Greco.
     Minerva ver le Muse il parlar mosse,
     Non so se quegli augei ragionin meco,
     Che se ’l sapessi, io non rifiuterei
     D’aggradir lor d’altri saluti miei.

Guarda d’accordo allhor disser le Muse,
     Fà, ch’ad uso miglior la lingua serbe,
     Non ascoltar le lor querele, e scuse,
     Che non fur donne mai tanto superbe.
     Del volto human restar pur dianzi escluse
     Essendo anchor d’eta molli, et accerbe
     Dal nostro allhor troppo oltraggiato choro
     Per l’arrogantia, e per la gloria loro.

Dentro del Macedonico sentiero
     Peonia una provincia il volgo appella,
     Vi nacque Evippe moglie di Piero,
     Ricco, e degno huom de la città di Pella.
     Di questa donna, e questo cavaliero
     Nacque quell’animal, c’hor ti favella,
     Che come io dissi, à ritrovar ne venne
     Per arricchire il ciel di nove penne.

Non credo mai, che de la madre alcuna
     Più prospera nascesse, e più feconda,
     C’havesse nel figliar miglior fortuna,
     Che trovasse Lucina più seconda.
     Fece una figlia ad ogni nona Luna
     Più bella una dell’ altra, e più gioconda,
     Tal, che in men di novanta Lune nove
     Con gran felicità n’acquistò nove.

Crebbero, e si trovar queste donzelle
     Cresciute un canto haver tanto soave,
     Che sopra tutte l’altre essendo belle,
     E’l lor verso ammirando ogni huom piu grave,
     Essendo come noi nove sorelle
     La lingua di parole armar sì prave,
     Che per tutto d’haver si davan vanto
     Di noi maggior dottrina, e miglior canto.

E un dì lasciato à bel studio il patrio tetto,
     Venner con grande audacia al sacro monte,
     E innanzi il nostro virginal cospetto
     Disser con folle, e temeraria fronte.
     Trovate altro diporto, altro ricetto,
     Che terrem cura noi di questa fonte,
     Ch’essendo nel cantar miglior di voi
     L’officio vostro hor s’appertiene à noi.

E se tal confidentia in voi si trova,
     Che ’l vostro canto sia di voce, e d’arte,
     Più soave del nostro, e che più mova,
     Ritiriamoci à cantare in qualche parte,
     Che vi farem veder per chiara prova,
     Che siam migliori in voci, e ’n vive carte,
     E siam contente, che le Ninfe unite
     Debbian d’accordo terminar tal lite.

Ma con patto però, che se in tal gioco
     À l’Amadriadi addolcirem più l’alma,
     Che voi n’habbiate à ceder questo loco,
     Questa fontana gloriosa, et alma.
     Ma quando il nostro canto sia più fioco,
     E tocchi à voi di riportar la palma,
     L’Emathie selve de la madre Evippe
     Contraponiamo al fonte d’Aganippe.

Se bene opra ne par di Dee non degna
     Venir contra mortali à tal contesa,
     Di gran lunga ne par cosa più indegna,
     Che si possan vantar di tanta offesa.
     De le Ninfe troviam l’illustre insegna,
     Le quai poi, ch’accettata hebber l’impresa,
     Per lo stagno giurar fatale, e nero
     Dar la sententia lor, secondo il vero.