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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/175

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Ne la Sicilia un monte Erice è detto,
     Dove è sacrato un tempio à Citherea,
     Quivi la bella Dea stando à diletto,
     Co’l suo dolce figliuol, ch’in braccio havea,
     Vede il Signor del tenebroso tetto
     Guardar, se la gran machina Tifea
     Fatt’hà qualche voragine in quel sito,
     Che torni in danno al regno di Cocito.

Venere, c’havea ogni hor la mente accesa
     Di crescere à se nome, imperio al figlio,
     Proserpina vedendo essere intesa
     À corre, e à inghirlandar la rosa, e ’l giglio,
     Le cadde in mente un’honorata impresa,
     E volse ver Cupido il lieto ciglio,
     Et accennando in questa parte, e ’n quella,
     Gli fe veder Plutone, e la Donzella.

Era anchor una tenera fanciulla
     Colei figlia di Cerere, e di Giove,
     Hor mentre coglie i fiori, e si trastulla,
     Cosi il parlar la Dea verso Amor move.
     La tua potentia ogni potentia annulla
     Nel cielo, e ne la terra, eccetto dove
     Regna colui, c’hor qui ti vedi à fronte,
     Il quale è Re del regno d’Acheronte.

Già tre parti si fer di tutto il mondo.
     Costui per Re la terza parte osserva.
     Tu acquisti il Re del regno più profondo,
     Se fai lui tuo soggetto, e lei tua serva.
     Tu vedi ne l’ imperio alto, e giocondo
     La guerra, che ci fa Delia, e Minerva.
     Tal, che s’habbiam nel ciel perduto in parte,
     È ben, che ci allarghiamo in altra parte.

Prendi dolce amor mio, quell’alme prendi,
     (Non ci perdiam si aventurosa sorte)
     Onde et huomini, e Dei sovente accendi,
     E fai soggetti à la tua altera corte.
     Stendi à l’ inferno anchor l’ imperio, stendi,
     E fa del zio Proserpina consorte.
     Fatti soggetti anchor gl’inferni Dei,
     Tu vedi qui Pluton, lì vedi lei.

L’ale il lascivo Amor subito stende,
     E trova l’arco, e la faretra, e guarda,
     E fra mille saette una ne prende,
     Più giusta, più sicura, e più gagliarda.
     E che talmente il volo, e l’arco intende,
     Ch’ogni sorella sua fà parer tarda,
     Et aguzzato il ferro à un duro sasso,
     Ferma co’l piè sinistro innanzi il passo.

Lo stral nel nervo incocca, e insieme accorda
     E la cocca, e la punta, e l’occhio à un segno:
     Poi con la destra tira à se la corda,
     E con la manca spinge innanzi il legno.
     La destra allenta poi, lo stral si scorda,
     E contra il Re del tenebroso regno
     Fendendo l’aria, e sibilando giunge,
     E dove accenna l’occhio il coglie, e punge.

Stà non lontan dal monte, ond’esce il foco
     Di prati un lago cinto d’ogn’intorno,
     Con fiori di color di minio, e croco,
     D’ogni splendor, che far può un prato adorno.
     Ma quei, che fan più vago il nobil loco,
     I boschi son, che dal calor del giorno
     Difendon quei bei prati d’ogni banda,
     E fanno intorno al lago una ghirlanda.

Hà di Pergusa il nome il lago, dove
     Con altre vaghe, e tenere donzelle
     La vergine di Cerere, e di Giove
     Tessea le vaghe sue ghirlande, e belle.
     Quivi cercò come havea fatto altrove
     Quel, che dà legge à l’ombre oscure, e felle,
     Per veder se Tifeo fatto ivi havesse
     Danno, ch’al Regno suo nocer potesse.

E poi, che danno alcun non vi comprese,
     Pensò tornare al suo scuro ricetto,
     Ma nel girar del carro i lumi intese
     In quel leggiadro, anzi divino aspetto.
     In tanto contra Amor l’arco gli tese,
     E come io dissi, il colse in mezzo al petto,
     E passò il colpo si dentro à la scorza,
     Che ei senza altro pensar venne à la forza.