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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/176

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La tenera fanciulla, et innocente
     Tutta lieta cogliea questo, et quel fiore,
     E quinci, e quindi havea le luci intente,
     Correndo à quei, c’havean più bel colore.
     Quest’era il maggior fin de la sua mente,
     D’haver fra le compagne il primo honore.
     In tanto il novo amante, ch’io vi narro,
     L’afferrò un braccio, e la tirò su’l carro.

Ella, che tutto havea volto il pensiero
     À le ghirlande, e à fior, come si vede
     Prender da quel cosi affumato, e nero,
     Stridendo à le compagne aiuto chiede.
     Plutone intanto al suo infernal impero
     Gl’infiammati cavalli instiga, e fiede.
     Chiama la mesta Vergine in quel corso
     Più d’ogni altra la madre in suo soccorso.

E volendo appigliarsi per tenersi
     À un legno con le man, vede, che cade
     Il lembo de la veste, e i fior diversi
     Tutte adornar le polverose strade:
     E in tal semplicità lasciò cadersi
     L’affetto de la sua tenera etade,
     Che de caduti fior non men si dolse,
     Che del ladron, ch’à forza indi la tolse.

Inteso il Re de l’Orco al suo contento
     Poi, che su’l carro tien l’amate some,
     Fa sovente scoppiar la sferza al vento,
     E questo, e quel caval chiama per nome.
     E grida, e fa lor’ animo, e spavento,
     E scuote lor le redine, e le chiome.
     Strid’ella, e volge à le compagne il viso,
     Che corrano à la madre à darne aviso.

Ma strider ben potea, che si discosto
     Da l’altre il Re infernal trovolla, e prese,
     Et elle havean tanto il pensier disposto
     À fiori, e tanto in lor le luci intese,
     Et ei fe il carro suo sparir si tosto,
     Che di tutte una non la vide, ò intese,
     E già calava il Sol verso la sera
     Quando tutte s’accorser, che non v’era.

Passa Pluton sul suo carro veloce
     Vicino à gli alti di Palico stagni,
     Dove l’odor solfureo à l’aria noce,
     Ch’essala fuor di quei ferventi bagni,
     Ne si cura di lei, ch’alza la voce,
     Ma lascia, che si doglia, e che si lagni,
     Giunge poi dove appresso à Siracusa
     Sorge il famoso fonte d’Aretusa.

Da quel sorge non un’altra fonte,
     V’è chi dal nome suo Ciane l’appella,
     Ninfa, che l’hà in custodia à piè del monte,
     Che preme di Tifeo la manca ascella.
     Costei tenendo allhora alta la fronte
     Fuor di quell’acqua cristallina, e bella,
     Vide portar con violentia altrove
     Colei, ch’uscì di Cerere, e di Giove.

E de la madre amica, e de l’honesto
     Al Re de l’Orco attraversò la strada,
     E disse con un volto acro, e molesto,
     Non passerai per questa mia contrada,
     Che pria non lasci il furto manifesto.
     E se pur questa vergine t’aggrada,
     Dei Cerere pregar, che te la dia,
     E non torla per forza, e fuggir via.

Farsi genero alcun mai non dovrebbe,
     Se ’l socero à restar n’havesse offeso,
     E s’uno à le gran cose agguagliar debbe
     Le picciole, anche Anapo restò preso
     Di me, qual tu mi vedi, e sposa m’hebbe,
     Ma ben con modo honestamente inteso.
     Cosi dicendo stende ambe le braccia,
     Et à cavalli suoi grida, e minaccia.

Temendo il Re del tenebroso inferno,
     Che l’Amadriade, e i Fauni, e le Napee,
     E quelle, che del mare hanno il governo,
     Et altre assai de le dolci acque Dee
     Non concorrano à fargli danno, e scherno
     Prima, che torni à l’ombre ingiuste, e ree,
     Batte la Terra, e le comanda poi,
     Che s’apra fin’ al centro, e che l’ingoi.