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Obedisce la Terra al suo tiranno,
E la strada apre, ch’ à l’inferno il mena,
Et ei sferza i cavalli, e quei vi vanno
À roder lieti l’infernale avena.
Con dolor, con angoscia, e con affanno
Resta, colei ne l’oltraggiata arena,
E può l’ira, e ’l dolor nel suo cor tanto,
Che più, che v’ha il pensier, più cresce il pianto.
Stillar fa in acqua l’uno, e l’altro lume
La grand’ira, e ’l dolor ch’ange la mente,
E ne l’onde medesme, ond’era nume,
À poco, à poco liquefar si sente,
Tal, che fà di se stessa un picciol fiume,
Il piede è già tutt’acqua e solamente
Si tien anchora un poco il nervo, e l’osso,
Se ben non è si duro, ne si grosso.
Piegato havreste qual tenera verga
L’ossa, che non ster molto à liquefarsi,
Ne membro v’ha, che l’acqua no’l disperga,
Ogni poco, che dentro osa attuffarsi,
Di questa, e quella man, ch’entro v’alberga,
I diti son nel fonte in fonte sparsi,
Visibil restav’ ancho il volto, e ’l petto,
Ma assai trasfigurato ne l’aspetto.
Perche fur prime le sue chiome bionde
À la fontana à far più colmo l’alvo,
Che cadder di ruggiada in mezzo à l’onde,
E le lasciaro il capo ignudo, e calvo,
Al fine il petto, e ’l volto anch’ei si fonde
In acqua, e membro in lei non resta salvo,
E dove pria fu de le linfe Ninfa,
Si fece poi de l’altre Ninfe linfa.
Quando tornar la madre non la vede
La sera in compagnia de le donzelle,
La qual con tutte ne ragiona, e chiede,
E non è, chi ne sappia dir novelle,
Move per tutto il doloroso piede,
Cercandola hor co’l Sole, hor con le stelle,
Fà poi con alte, e dolorose strida
Palese il gran dolor, che in lei s’annida.
L’Aurora già di ruggiadoso humore
Sparsa l’arida terra havea due volte,
Et altrettanto il Sol co’l suo splendore
Havea tutte à i mortai le stelle tolte.
Due volte anchor nel tenebroso horrore
L’alme città la notte havea sepolte
Co’l manto suo caliginoso, e nero,
Del nostro, e de l’Antartico Hemispero.
Quando per tutta la Trinacria havendo
Cercato, senza haverla mai trovata,
E fuor del suo costume non essendo
À l’infelice albergo mai tornata;
Congiunse i draghi horribili piangendo
Al carro, in tutto afflitta, e disperata.
Ma due gran Pini pria nel monte Etneo
Accese ne le fiamme di Tifeo.
Dapoi, c’hebbe la Dea le faci accese,
Montò su’l carro, e diede i draghi al volo,
E vide ( in tanto ciel le penne stese )
L’Hibero, il Gange, e l’uno, e l’altro Polo.
Benche più, che cerconne, men n’intese;
Le mancò la speranza, e crebbe il duolo;
E ’n boschi, antri, palazzi, e ’n ogni loco
Entrò quando co’l Sol, quando co’l foco.
Al fin da la stanchezza, e da la sete
Vinta, co’l carro in una selva scende,
Lega gli stanchi draghi ad uno abete,
E l’occhio, e ’l piè verso un tugurio intende.
E d’acqua desiosa, e di quiete,
Co’l piè la bassa porta alquanto offende.
Una vecchia vien fuor, ch’ode picchiarla,
E la Sicana Dea cosi le parla.
Se chi può, quelle spighe faccia d’oro,
Che concede la terra à la tua sorte,
E renda gli anni tuoi, come già foro
Lieti, e robusti, e te vivace, e forte;
Dà con un poco d’acqua alcun ristoro
À queste membra stanche, afflitte, e morte:
Ristora quell’humor, che ’l Sol m’ ha tolto,
E fatto nel camin piover dal volto.