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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/178

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Non havea anchor la Dea fermato il detto,
     Che la cortese vecchia, benche lenta,
     Mossa da la pietà, dal santo aspetto,
     Cercò farla restar di se contenta.
     E del vin, che nel suo povero tetto
     Teneva, e d’una rustica polenta,
     C’havea per uso suo fatta pur dianzi,
     Con fede, e con amor le pose innanzi.

Il palato la Dea sente si asciutto,
     Et ha di ristorar sete si grande
     L’afflitto corpo da l’ardor distrutto,
     Che poco havendo à cor l’altre vivande,
     Dal vaso terreo il vin si beve tutto,
     E poi de l’altro vin da se vi spande.
     Poi getta dentro al vin le spighe cotte,
     E ’l vino, e l’orzo ingordamente inghiotte.

Un fanciullo era lì soverchio ardito,
     Anzi secondo il suo stato impudente,
     Ne visto havendo mai si bel vestito,
     Ne fronte si divina, e risplendente,
     Stava à mirarla attonito, e stordito,
     Vistola poi mangiar si ingordamente,
     Rise, e guardò la vecchia, et additolla,
     E troppo ingorda, et avida chiamolla.

E seguitando il suo dispregio, e riso,
     Fu forza, che la Dea si risentisse,
     E quella zuppa gli aventò nel viso,
     E con grand’ira, e gran disdegno disse.
     Perche non sia da te più alcun deriso,
     Io vo, che porti eternamente affisse
     Queste vivande, onde mi spregi tanto,
     Per nota del tuo ardir sopra il tuo manto.

Tutto gli macchia il vino, e ’l grano il volto,
     E in un momento tutto il corpo abbraccia:
     Si fan d’un’ animal breve, e raccolto
     Due gambe picciolissime le braccia.
     Non dal Ramarro differente ha molto
     Il corpo, i piedi, e la coda, e la faccia.
     È più picciolo assai, di stelle pieno,
     Et ha, ma non mortal qualche veneno.

Vien detto Stellion da molte stelle,
     Che ’l manto cosi vario gli han composto,
     E che gl’impresser sopra de la pelle
     Per uno sdegno la polenta, e ’l mosto.
     Piange l’afflitta vecchia, e guarda quelle
     Membra fatte si picciole, e si tosto:
     Vorria toccarlo, e teme, e non sà donde
     Debbia afferrarlo, et ei fugge, e s’asconde.

La Dea ritorna à draghi, e in aria poggia
     Sotto il torrido cerchio, e sotto il gielo:
     Vede ove il Sol si leva, e dove alloggia,
     L’huom di quanti colori hà il mortal velo.
     Non teme Sol, ne grandine, ne pioggia,
     Ne il troppo freddo, o ’l troppo ardente cielo.
     E tanto in giro andò di tondo, in tondo,
     Che per troppo cercar le mancò il mondo.

Al fin torna in Sicania, e guarda dove
     Stava cogliendo i fior con le compagne.
     Quivi non la ritrova, e cerca altrove,
     E tutti scorre i boschi, e le campagne.
     Al fin verso quel fonte il passo move,
     Che ’l torto di Pluton continuo piagne:
     L’havria ben Ciane allhora il tutto detto,
     Ma le mancava il suon, la lingua, e ’l petto.

E non potendo più con quelle note,
     Onde à Pluton gridò, scoprir la mente:
     Dà quegli inditij à lei, che dar le puote,
     Come la nova sorte le consente.
     Mentre spinse Pluton l’avare rote,
     Co’ fior cadde à la vergine innocente
     Una cintura, dove il fonte nacque,
     E questa Ciane le mostrò sù l’acque.

Come la madre sconsolata vede
     La pretiosa fascia, e in man la piglia,
     Come le faccia indubitata fede,
     Che cadde nel fuggir, che fe la figlia,
     Il tristo, et innocente petto fiede,
     E l’inornate chiome si scapiglia:
     E stride, e fa sentire i suoi lamenti
     Con questi afflitti, e dolorosi accenti.