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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/18

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Astrea, che con la libra, e con la spada
     Conosce di ciascun l’errore, e ’l merto;
     Poi che s’avide, che non v’era strada,
     Da giugner con la pena al grande merto,
     Se non rendeva per ogni contrada
     Il mondo à fatto inutile, e deserto,
     Pria che veder che ’l tutto si consumi,
     Ultima andò fra i più beati Numi.

Venner poscia i Giganti, al mal sì pronti,
     Che spregiando i bei doni de la terra,
     Vollon gustar gli alti nettarei fonti,
     E ’l maggior ben, che fra gli Dei si serra;
     Onde osar metter monti sopra monti,
     E farsi scala al ciel per far lor guerra,
     Ponendo con la lor mirabil possa
     L’un sopra l’altro Pelio, Olimpo, et Ossa.

Il figliuol di Saturno, che discorre
     Un sì nefando, e sì crudel disegno,
     E vedendo il pericolo, che corre
     L’alta rocca del cielo, e ’l suo bel regno,
     Al più dannoso fulmine ricorre,
     E folgorando in quel lavoro indegno,
     Fè, che quei monti equati à la pianura
     Fur di quegli empi e morte, e sepoltura.

Ma la natura pia, che non consente,
     Che quella stirpe sia stirpata à fatto,
     Fà germogliar di novo un’altra gente
     Del sangue loro in terra putrefatto,
     Che fu l’idea d’ogni perversa mente,
     E d’ogni opera ria norma, e ritratto;
     Di sangue nacque, e ne fu tanto ingorda,
     Che di sangue era ogn’hor macchiata, e lorda.

Ne fu contra gli Dei la più spietata,
     Ne che il lor culto in più dispregio havesse.
     Hor mentre il gran motor l’intende e guata
     Sdegno degno di Giove il cor gli oppresse,
     Et havendo la mensa scelerata,
     E mille ingiurie ne la mente impresse
     De l’empia Arcadia, con turbato ciglio
     Fe chiamar gli altri Dei tutti à consiglio.

Una splendida via nel ciel riluce,
     Candida sì, che dal latte s’appella;
     La nobiltà del ciel vi si riduce,
     La plebe alberga in questa parte, e ’n quella.
     Questa è la via, la qual dritto conduce
     À la corte real, superba, e bella.
     Per questa via con pompa, e con decoro,
     Gli Dei n’andaro al santo concistoro.

Assiso ogn’un nel suo bel seggio adorno,
     E ne l’alto regale il sommo Giove,
     Girando ei l’infiammate luci intorno
     Mostrò d’haver cose importanti, e nove;
     Crollando il capo altier, che d’ogn’ intorno
     Il ciel, la terra, il mare, e i venti move;
     Per far noto à che fin tutti raccolse,
     La lingua irata in tai parole sciolse.

Non mi trovai più gravemente oppresso
     Per le cose del mondo dal pensiero,
     Nel tempo, che i Giganti sottomesso
     Haveano tutto l’Artico hemispero,
     E tutto il cielo in gran travaglio messo
     Cercando opprimer noi col nostro impero,
     Tentando con la forza, e con l’ingegno
     Dar fine al nostro sempiterno regno.

Che se ben era l’inimico acerbo
     Del corpo forte, e de l’animo insieme;
     Pur tutto quell’indegno atto, e superbo
     Nacque sol d’una origine, e d’un seme:
     Solo una coppia al mondo hor ne riserbo,
     Che la deità nostra adora, e teme;
     Ogni altro, ovunque il Sol luce, e le stelle,
     Per tutto il mondo à noi fatto è ribelle.

E per quell’acqua giuro, che m’astringe
     A dover osservar le mie parole,
     Per tutto, ovunque il mare abbraccia, e cinge,
     Voler tutta annullar l’humana prole;
     Che se necessitade à ciò ne spinge,
     Una piaga incurabil se ben dole,
     Con ferro, ò foco si recida, e netti,
     Perche la parte sana non infetti.