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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/19

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Satiri, Semidei, Fauni, e Silvani
     Non degni anchor de l’alto honor del cielo,
     Fra spirti sì crudeli, e sì profani,
     Come vivran’ sotto ’l terrestre velo;
     Se me, che con le proprie invitte mani
     Lancio l’ardente, e spaventoso telo;
     Me, che dò legge à la celeste corte
     Ha cercato un mortal condurre a morte?

Gran mormorio fra lor, gran romor nacque
     Udita sì perversa intentione:
     E tanto à cieschedun dolse, e dispiacque,
     Ch’ogn’un cercò saperne la cagione,
     Chi sì ne le mal’opre si compiacque,
     Ch’osò d’usar sì gran prosuntione.
     E dimostraro tutti à più d’un segno
     Ver Giove gran pietà, ver lui gran sdegno.

Ma poi, ch’ei con la mano, e con la voce
     Comandò, che ciascun tacendo, udisse;
     Via più che mai terribile, e feroce
     Ruppe il novo silentio, e così disse.
     Lasciate andar, che del suo fallo atroce
     Volli, che degna pena ei ne patisse;
     Però, che li cangiai la forma, e ’l nome
     Per suo supplicio. Et udirete come.

Quando mi venne per sorte à l’orecchio
     L’horrenda che del mondo infamia suona;
     Dal ciel discendo, e cercar m’apparecchio,
     S’è ver tutto quel mal, che si ragiona.
     Prendo human volto, e ’l mio sembiante vecchio
     Lascio, e vò (non credendolo) in persona.
     Qui saria lungo à darne il conto intero,
     Che la fama trovai minor del vero.

Vidi cercando diversi paesi
     Regnar per tutto la forza, e l’inganno.
     Giunsi al fine in Arcadia, e quivi intesi,
     Che v’era un crudelissimo Tiranno.
     Ver le case spietate il camin presi,
     Per voler riparar à sì gran danno;
     Fei per gran segni noto al venir mio,
     Ch’ io era in corpo human l’eterno Dio.

Gli spirti più sinceri, e più devoti
     Già per tutto venian per adorarmi,
     À mandar preghi, et à prometter voti
     Per segni, che vedean mirandi farmi.
     Nè far li potei mai sì chiari, e noti,
     Che fede Licaon volesse darmi,
     Anzi di me sì forte si ridea,
     Che s’adombrò ciascun, che mi credea.

Poi tra se disse. io mi son risoluto
     Voler di questo fatto esser più chiaro,
     Se questo è Dio, ò pur qualche huomo astuto,
     Che cerchi d’ingannare il vulgo ignaro:
     M’invita seco à cena. io non rifiuto.
     Perche ’l suo mal pensier gli costi caro,
     Ch’era di darmi in quello stante morte,
     Che ’l sonno à gli occhi miei chiudea le porte.

E non contento del mortal oltraggio,
     Che ne la mente sua tenea celato,
     Ucciso c’hebbe un’ infelice ostaggio,
     Che pur dianzi i Molossi gli havean dato,
     O per assicurarlo de l’homaggio
     O per altro interesse del suo stato;
     E ’n varie foggie quel cotto, e condito
     L’appresentò nel funeral convito.

Io l’horrendo spettacolo vedendo,
     Tutta di foco quella casa sparsi,
     E gli Dei suoi familiari, essendo
     Degni di maggior pena, accesi, et arsi.
     Ond’egli sbigottito andò fuggendo
     Dove meglio pensò poter salvarsi;
     E dove il bosco ha più le parti ombrose
     Più tosto, che poteo, corse, e s’ascose.

E volendo parlar seco, e dolersi
     De la sua acerba, e meritata pena,
     Subito in ululato si converse
     La voce sua, d’ira, e di rabbia piena.
     L’humano aspetto tosto si disperse,
     Volse il corpo à la terra, al ciel la schena.
     Il volto human si fe ferina faccia,
     E piedi, e gambe, le mani, e le braccia.