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Si fe d’un huom’, un lupo empio, e rapace
Servando l’uso de l’antica forma,
Che l’human sangue più che mai li piace,
De’ suoi vecchi desir seguendo l’orma.
Hor, per empire il suo ventre vorace
Serva nel gregge anchor la stessa norma,
Gli occhi ha lucenti, e guardatura fera,
La canicie, e ’l color come prim’era.
Solo una cosa ho spenta, hora à me pare,
Che s’havriano à mandar le cose uguali.
Perche per tutto, ove la terra appare,
Han preso imperio le furie infernali,
Pensate, che giurato habbian di fare
Gli huomini tutti i piu nefandi mali,
Si ch’ io condanno ogni mortale à morte,
Perche pari a l’error la pena porte.
La sentenza di Giove ogn’un conferma
Altri con cenni, et altri con parole,
E stan con fantasia stabile, e ferma,
Che splender debbia à novo mondo il Sole.
Pur’ à ciascun, che ’n quel pensier si ferma,
Sì general iattura incresce, e dole,
Che san, che ’l mondo esser non può perfetto
Privo de l’animal, c’ha l’intelletto.
Chi porterà (diceano) in nostro honore
Ne’ sacri altari gli odorati incensi ?
S’han forse à dare in preda al gran furore
Le città d’animali horrendi, e immensi ?
Lasciate andar, c’ho questa cosa à core,
Rispose Giove, e non sia chi ci pensi,
Con mirabile origine io fo stima
Far gente assai dissimile à la prima.
Co’ suoi folgori ardenti allhora allhora
Giove distrutta havria tutta la terra:
Ma tanti fochi ben poteano anchora
Ardere il cielo, e ruinarlo à terra.
Sa ben, che ’l tempo ha da venire e l’hora,
Che ’l foco à tutto ’l mondo ha da far guerra,
E consumar con le sue fiamme ardenti
La terra, il cielo, e tutti gli elementi.
Da parte tosto ogni pensier si mette,
Che d’intorno à l’incendio il cielo havea,
E si ripongon tutte le saette
Che fa Vulcan ne la montagna Etnea.
In quanto al modo, ogni Dio si rimette
A quel, ch’occulto anchor Giove tenea,
Che fu contrario al primo, e à tutti piacque
Di nasconder la Terra sotto l’acque.
Fa dire ad Eolo la corte superna,
Che vuol la terra à l’acqua sottoporre.
Egli, che i venti à suo modo governa,
E ch’à sua posta gli può dare, e torre,
Rinchiude Borea in una sua caverna,
Et ogni vento, che la pioggia abhorre,
E l’Austral manda fuor, ch’è detto il Noto,
Che per molti suoi segni à molti è noto.
Con l’ali humide sue per l’aria poggia;
Gl’ingombra il volto molle, oscuro nembo.
Dal dorso horrido suo scende tal pioggia,
Che par, che tutto ’l mar tenga nel grembo.
Piovon spesse acque in spaventosa foggia
La barba, il crine, e ’l suo piumoso lembo.
Le nebbie ha in fronte, i nuvoli à le bande
Ovunque l’ali tenebrose spande.
Quando con l’ali egli dibatte, e scuote
Le nubi intorno, e fra le palme preme,
Un strepito, un romor l’aria percuote,
Che par, che l’aria, e ’l ciel s’urtino insieme.
Vien giù la pioggia più spessa che puote;
L’aria percossa ne borbotta, e freme.
Arbori spoglia, et herbe atterra, e biade
Dove la pioggia ruinosa cade.
Il misero villan, ch’ intorno mira
Venir dal cielo il non pensato danno,
Con intenso dolor piange, e sospira,
Che perde il suo lavor di tutto l’anno.
L’arco incurvato suo carica, e tira
La nuntia di Giunon, che quando vanno
L’aria offuscando i più torbidi venti,
Porge à le nubi i debiti alimenti.