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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/183

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Rallegraro à la Dea l’interna mente
     Le nozze, e la vittoria, e divenne aviso,
     L’occhio rasserenato, e risplendente,
     E la grata favella, e ’l dolce riso.
     Cosi tal’hor le nubi al più lucente
     Lume del ciel fan tristo, e oscuro il viso,
     Ma poi s’ei scaccia il nembo horrido, e folto,
     Mostra il cor vincitor nel lieto volto.

In terra vien dallo stellato monte
     Co’l rallegrato cor, co’l primo honore,
     E và lieta à trovar l’amica fonte,
     Che conoscer li fe l’involatore.
     Deh di novo Arethusa alza la fronte,
     E come ti stillasti in questo humore,
     Conta (la Dea le disse) e fammi note
     Le tue fortune, e le tue dolci note.

Restan di mormorar le lucid’onde,
     Et ella mostra fuor l’infusa faccia,
     La verde chioma poi, che ’l viso asconde,
     Di quà, di là fin’ à l’orecchie scaccia.
     Poi con gran maestà cosi risponde.
     De la Vergine Dea, ch’ama la caccia,
     Io fui già Ninfa, e ne l’Achivo lido
     Havea fra le più belle il vanto, e ’l grido.

Ninfa in Grecia non fu, che conoscesse
     Meglio le selve, i piani, i monti, e i passi;
     Neé che le reti meglio vi tendesse,
     Ne che movesse più veloci i passi.
     Le leggi nel mio cor di Delia impresse
     Non soffrian, ch’à fin rio l’alma io voltassi,
     Ma scacciato ogni fine infame, et empio,
     Sol cercava di lei seguir l’essempio.

E dove ogn’ altra Ninfa altera andava,
     S’altrui la sua beltà fea maraviglia:
     Io se la forma mia qualchun lodava,
     Per vergogna tenea basse le ciglia.
     E se talhor qualchun mi vagheggiava,
     La guancia à un tratto si facea vermiglia,
     E cosi rozza in questa parte fui,
     Che vitio mi parea piacere altrui.

Tornando lassa da la caccia un giorno
     Sola, che le compagne havea lasciate,
     Veggio di pioppi, e salci un fiume adorno
     Ambe le sponde, e d’ombre amene, e grate.
     Solo era il loco, e ’l Sol girando intorno
     Su ’l carro havea la perigliosa State,
     E ’l faticoso di cacciar diletto
     Di doppia state ardea lo stanco petto.

Quel fiume Alfeo si chiaro era, e si mondo,
     E senza mormorar gia cosi lento,
     Che si potea contar nel maggior fondo
     L’arena, ogni suo gran d’oro, e d’argento.
     Era infocato in ogni parte il mondo,
     Spirata era ne l’aria in tutto il vento.
     Tal, che mi mosse à diguazzarmi un poco
     L’ombra, l’acqua, il viaggio, il tempo, e ’l loco.

Sfibbio la vaga, e ben fregiata spoglia,
     Ch’à me fa il fianco adorno, altrui l’asconde.
     E dove veggio più folta la foglia,
     La poso, e lascio in su l’herbose sponde.
     Poi dal desio, ch’à rinfrescar m’ invoglia,
     Spinta fido il mio corpo à le fals’onde,
     C’havrian sommerso il mio terrestre peso,
     S’io non havessi al mio sostegno inteso.

Le braccia, e i piedi à tempo incurvo, e scuoto,
     Disteso hor tengo il corpo, hor più raccolto,
     Con le mani, e co i piè l’acqua percoto,
     E la discaccio co’l soffiar dal volto.
     Mi diletta dapoi di cangiar nuoto,
     E ’l volto, e’l petto, e ’l grembo al ciel rivolto,
     E tenendo à l’ insù drizzato il lume,
     Mi lascio alquanto in giù portar dal fiume.

Indi come và l’huom per terra in piede
     Mi drizzo, e su le braccia mi sostegno.
     Poi torno al primo nuoto, e ’l petto siede
     Steso tutto su l’acqua come un legno.
     Zappo poi l’onde, e, come una man fiede,
     S’ inalza l’altra, e di ferir fa segno,
     Et alternando nel zappar le braccia,
     Come hà percosso l’un, l’altro minaccia.