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Ei cerca, e non si parte, perche vede,
Che più lunge il mio piè stampa non forma.
Et io fra la fatica, che mi diede
Il formar si veloce in terra l’orma;
E fra ’l timor, che mi tormenta, e fiede,
Veggio, che in humor freddo si trasforma
La carne, il sangue, e l’ossa, e l’auree chiome,
E non mi resta salvo altro, che ’l nome.
Come son le mie membra in acqua sparse,
Conosce l’onde amate il caldo Dio,
E la forma, c’havea quando m’apparse
De l’huom pensa cangiar nel proprio rio,
Per poter meco alcun diletto darse,
E mescer l’acque sue nel fonte mio.
E secondo il pensier si cangia, e fonde,
Novella noia à le mie vergini onde.
Percote con un dardo allhor la terra
Diana, e fà, che s’apre, e che m’invola,
E mi conduce piu del mar sotterra
Per una cupa, e tenebrosa gola:
Non senza del condotto, che mi serra
Timor, che non mi lasci venir sola,
Ch’egli non apra à Dori il seno avaro,
E ’l dolce fonte mio non renda amaro.
E poi, ch’un lungo tratto hebbi trascorso
Per quel condotto periglioso, e strano,
Qui venni al giorno, e qui concessi il sorso
De le mie linfe al popolo Sicano.
Qui diè fine Aretusa al suo discorso,
E rinchiuse in se stessa il volto humano,
Il verde crin, la cristallina fronte
Attuffò come pria nel proprio fonte.
La lieta Dea di novo il carro ascende,
E poggia in aria, e lascia il fonte solo,
E verso l’oriente il camin prende,
Fra ’l cancro, e ’l cerchio del più noto polo.
Già sopra la Morea ne l’aria pende,
Vede, e passa Corinto, e ferma il volo
Ne le parti honorate, eccelse, e dive,
Dove Palla piantò le prime olive.
E, perche far sopra ogni cosa brama
Del seme suo tutto il terren fecondo
Trittolemo un suo alunno allegra chiama,
Gli dice poi. D’un’ honorato pondo
Gravar ti vò per darti eterna fama,
Che cerchi su’l mio carro tutto ’l mondo,
Per le parti di mezzo, e per l’estreme,
E che le sparghi tutte del mio seme.
Fà su’l carro montar l’alunno altero,
Poi gli da un vaso d’or non molto grande,
Pien del suo seme più lodato, e vero,
E ’l vaso è sempre pien, se ben si spande.
Leva egli il drago à vol presto, e leggiero,
E dona al mondo le miglior vivande:
E dopo haverne sparsi tutti i siti,
Pervenne à Linco, al gran Re de gli Sciti.
Non lungi al regio albergo entra in un bosco
Per non dar ne terror, ne maraviglia
À la città de’ draghi, e del lor tosco,
Là dove il morso à lor toglie, e la briglia:
Quivi gli alberga, insin che l’aer fosco
Scacci l’Aurora candida, e vermiglia;
Poi và co’l vaso al Re, ch’empie il terreno
Del seme de la Dea, ne vien mai meno.
Quell’humiltà, ch’à tanta monarchia
Conviensi innanzi à Linco il Greco osserva,
Poi dice; alto Signor la patria mia
È la città prudente di Minerva.
Trittolemo è il mio nome, e qui m’invia
La Dea, che ne nutrisce, e ne conserva,
Acciò ch’empia il tuo regno di quel grano,
Ch’è proprio nutrimento al corpo humano.
E per empire il mondo in ogni parte
Del nobil gran, che Cerere possiede,
Non hò varcato il mar con remi, ò sarte,
Ne per la terra m’hà condotto il piede:
D’andar su’l carro suo m’insegnò l’arte
La Dea, che per ben publico mi diede.
E, perche alcun non tema de lor toschi,
Legati ho i draghi suoi ne’ vicin boschi.