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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/186

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Di quà dal monte Imavo hoggi per tutto
     Ho la tua terra ingravidata, e sparsa,
     Onde del più lodato, e nobil frutto
     Al grande imperio tuo non fia mia scarsa:
     E, perche m’ hà la notte qui condutto,
     Fin, che la nova luce sia comparsa,
     Ti chiedo albergo, e lieti farò poi
     Diman di la dal monte i Regni tuoi.

E questo vaso d’or per farti accorto,
     Che ’l il mio parlar maraviglioso, e vero,
     Ch’è detto Pirodoro, e meco porto
     Darà del mio parlar giuditio intero.
     Ch’ in questa loggia, ov’ hora è il tuo diporto,
     Voglio, che ’l ciglio tuo grave, e severo
     Conosca, che più biada egli hà nel fondo,
     Che non fà di bisogno à tutto ’l mondo.

Tosto rivolta il vaso, e versa l’esca,
     Ch’elesse l’huom dopo le prime ghiande,
     La pioggia allhor del gran più ogn’ hor rinfresca,
     Tanto n’acquista l’or, quanto ne spande.
     Tal, che forza è, che ’l monte in terra cresca,
     E che per ogni via venga più grande.
     Poi disse al Re, conosci al gran, ch’aspergo,
     Che sol per lo tuo ben ti chiedo albergo.

L’Imperador come insensato resta,
     Quando vede cader la ricca pioggia,
     E che ’l vaso di piover non s’arresta,
     Anzi, c’hà piena già mezza la loggia:
     Abbraccia il Greco, e fagli honore, e festa,
     E seco à mensa il pon, seco l’alloggia,
     E spesso dice, tutto il mio thesoro
     Non potria mai pagar quel Pirodoro.

Io la tua Dea ringratio, e te non manco;
     Che si grato qui fai meco soggiorno,
     Ma tu dei di ragione esser già stanco,
     Essendo homai per tutto andato intorno:
     Và dunque, e posa il travagliato fianco,
     Fin, che l’Aurora apporta il novo giorno.
     Cosi andò ’l Greco à ritrovar le piume,
     E à pena entro vi fu, che chiuse il lume.

Vide l’Imperador, mentre fè parte
     Il vaso d’oro à lui di tanto seme,
     Che fe stupido ogn’un, che in quella parte
     Era, e de grani in lui fondò la speme.
     Hor teme, come sian le voci sparte,
     Che i principi, e la plebe uniti insieme
     No’l chiamino lor Dio d’accordo uniti,
     E non gli dian l’imperio de gli Sciti.

Et oltre, che si fe questo sospetto
     Signor del suo discorso empio, e profano,
     Troppo avaro pensier gl’ ingombrò ’l petto
     D’haver quel vaso d’or, che rende il grano.
     Come ode, che ciascun possiede il letto,
     Le ricche piume sue lascia pian piano.
     E d’or s’ammanta i ben tessuti stami
     Tutti di soli adorni, e di ricami.

Questo superbo, e glorioso Scita
     Eletto per impresa il Sole havea,
     Et ogni spoglia sua ricca, e gradita,
     Di richi Soli, e varij risplendea.
     Non havea voce alla sua impresa unita,
     Ma troppo chiaramente si vedea,
     Che volea dir, che ne la terra mole
     Fra gli altri lumi regij egli era il Sole.

In man quel corto, e aguzzo ferro prende,
     Che suol cinto portar dal destro lato,
     E per torsi il sospetto, che l’offende,
     E per haver quel vaso si pregiato,
     Sicuro và, che ’l Greco non l’ intende,
     À l’ocioso sonno in preda dato,
     E à l’innocente acciar muto minaccia,
     Che ’l cor gli passi, e l’homicidio faccia.

Trittolemo non sol d’amore accese
     Gli huomini per la sua fertile pioggia,
     Ma ogn’ arme, e sasso, e legno, che l’intese,
     E vide il ben promesso in quella loggia.
     Hor quel pugnal, ch’in honorate imprese
     Solea servire il Re, che ’l Greco alloggia,
     Amando quel Signor cortese, e saggio
     S’astien per quanto ei può di fargli oltraggio.