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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/212

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Questi, secondo i vecchi han per costume
     Di raccontar Ie cose de lor tempi,
     Disse. di questo, e quel deriso Nume
     Infiniti contar si ponno essempi:
     Ma poi c’hoggi Latona, e ’l doppio lume
     Honoran questi altari, e questi tempi,
     Ti vò contar come nel Licio regno
     Vinse la stessa madre un’ altro sdegno.

Essendo il padre mio già carco d’anni,
     E me vedendo esser adulto, e forte,
     Ne più potendo quei soffrire affanni,
     Ond’ei già migliorò la nostra sorte,
     Disse. per proveder figlio à quei danni,
     Che ti può dar la mia propinqua morte,
     È ben, che quel riposo, onde tu vivi,
     Doni al tuo vecchio padre, e te ne privi.

I vò per l’avenir darti il governo
     Di quelle facultà, ch’al nostro stato
     Furo acquistate dal sudor paterno
     Con modo ragionevole, e lodato.
     Andar convienti in un paese esterno,
     Ma non fuora però del Licio stato,
     Ma dove hoggi il mercante il passo intende,
     Però ch’altri vi compra, altri vi vende.

Tu sai, c’ho tratto sempre quel sostegno,
     Che chiede à noi la vita, e la natura,
     Da quel lodato culto, utile, e degno,
     Che serve à l’arte de l’agricoltura.
     Manca hor de buoi quell’incurvato legno,
     Cui fa la punta il vomero più dura,
     Ch’al caldo Sol de la stagion, che miete,
     Sentir soverchio caldo, e troppa sete.

Questa chiave è custodia al poco argento,
     Che del venduto gran trassi pur dianzi:
     Quest’altre son del vino, e del frumento,
     Toglile tutte, e reggi per l’innanzi.
     Dammi in vecchiezza mia questo contento,
     Fà, che ’l tuo studio il mio consiglio avanzi,
     Provedi à gli otiosi aratri i buoi,
     Poi reggi il patrimonio come vuoi.

Secondo ei mi comanda, il peso io prendo
     Di rinovar de buoi la mandra morta,
     E sopra un picciol mio ronzino ascendo,
     Come lo stato mio d’allhor comporta:
     E dove ei disse, al mio camino intendo
     Con una, che mi diè, prudente scorta:
     Questi era agricoltor di qualche merto,
     Nel rurale essercitio molto esperto.

Veggiamo in mezzo à un lago il terzo giorno
     Un ben composto, et elevato altare,
     Che posa sopra un piedestallo adorno
     Di marmi, e di colonne illustri, e rare,
     Tal, ch’à le canne à lui cresciute intorno
     Più di due braccia fuor superbo appare.
     Smonta del suo ronzino il Duca mio,
     E s’ inginocchia à venerar quel Dio.

Anch’io seguendo il suo divoto essempio
     Smonto, m’inchino, e fiso intendo il lume,
     E dico ver l’altar, che non hà tempio.
     Qual tu ti sia non cognito à me Nume,
     Fa, ch’in questo viaggio il ladro, e l’empio
     Ver noi non servi il suo crudo costume.
     E la stessa dò fuor parola fida,
     Che sento dire à la mia saggia guida.

Ben è quel padre aventuroso, e saggio,
     Che cerca provedere al rozzo figlio,
     Di scorta, c’abbia à Dio volto il coraggio,
     E c’honorato à lui porga consiglio.
     Ch’ella è cagion, che nel mortal viaggio
     Non cerca haver dal ciel l’eterno essiglio,
     E nel cospetto altrui tal mostra il core,
     Che ’l fa degno di laude, e d’ogni honore.

Mentre per rimontar levo alto il piede,
     Per gire al mio camin con l’altrui piante,
     Veggio un, che verso noi camina à piede,
     E come al santo altar si vede avante,
     China l’humil ginocchio, e mercè chiede,
     Ma come vuol lasciar le pietre sante,
     L’affiso, et à le orecchie gli appresento
     Un mio novo desio con questo accento.