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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/213

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S’al prego, ch’à l’altar palustre offerto
     Hai co’l ginocchio humil, co’l cor devoto,
     Tal dal pregato Dio sia dato il merto,
     Che satisfaccia al desiato voto:
     Cortese peregrin rendimi certo
     De lo Dio de l’altar, s’egli t’ è noto,
     Et ei, che conoscea l’altare, e l’acque,
     Con questa voce al mio desir compiacque.

Patrio non è di questi monti Dio
     Quel de l’altar si riccamente adorno,
     Quel marmo è di colei, che partorio
     À la notte la Luna, il Sole al giorno.
     E quando di sapere habbi desio,
     Perche non gli trovar miglior soggiorno,
     E perche il fabricaro in quel pantano,
     Con un miracol suo te ’l farò piano.

Come seppe Giunon, che l’alma Dea,
     À cui l’altar fu in quello stagno eretto,
     Del suo marito grave il seno havea,
     E che ’l tempo del parto era perfetto,
     La terra larga, e pia fe avara, e rea,
     Ne volle, ch’à la Dea desse ricetto:
     Pur l’accettò l’Ortigia, et hebbe quivi
     La palma fra le palme, e fra gli olivi.

Poi c’hebbe scarco il sen del nobil pondo,
     Contra la sorte sua cruda, e maligna,
     E dato i due più chiari lumi al mondo
     Contra il geloso cor de la matrigna,
     Giunon volendo pur mandarla in fondo,
     La discacciò da l’ isola benigna,
     E fuggì ne la Licia con l’ impaccio
     De i due, che fatti havea fanciulli in braccio.

L’ardor del mezzogiorno, e’l lungo corso,
     E ’l latte, che i fanciulli havean succiato,
     L’ havean di tant’ humor privato il dorso,
     E di si ingorda sete arso il palato,
     Che corse à quel pantan per darvi un sorso,
     E già il viso, e ’l ginocchio havea piegato,
     Ma quando pensò far la bocca molle,
     Vi fu chi se l’oppose, e che non volle.

Quivi eran molti rustici per corre
     Di giunchi, e salci da legar vincigli,
     Hor come veggon, ch’à lo stagno corre
     Per ber la bella donna, c’ hà i due figli,
     Cominciar gli occhi ingordamente à porre
     In quei vaghi color bianchi, e vermigli,
     E vedendola sola un desir cieco
     Gli prese, e gli dispose à l’atto bieco.

E di consiglio poveri, e d’ardire,
     Vedendo à lei d’ humor la bocca priva,
     Pensar lo stagno à lei vetare, e dire
     Di non lasciarla ber ne la lor riva,
     Se pria non promettea di consentire
     À la lor voglia obbrobriosa, e schiva.
     Tanto, che le vetar le publich’ acque,
     Ma la richiesta in mezzo il dir si tacque.

Comincian bene à dir, tu non berai,
     Se non, ma ’l resto poi dar fuor non sanno,
     Che i sopr’humani in lei veduti rai
     Nel mezzo del parlar tacer gli fanno.
     Deh movavi pietà diss’ella homai,
     Se non di me, de i due, che in sen mi stanno,
     Che s’avien, che le membra io non conforti,
     Mancando il latte à me, resteran morti.

Come comuni son l’aura, e la luce,
     Cosi publiche son l’acque, e le sponde.
     Il Sol per tutti egual nel ciel riluce,
     L’aura ad ogni mortal del par risponde.
     Tal, ch’ingiusto è il desio che vi conduce
     À dinegar à me le ripe, e l’onde.
     E quando à ber nel vostro lago io venni,
     Corsi al publico dono, e non l’ottenni.

Pur se bene è comune il lago, e ’l fiume,
     Supplico à voi, come se fosse vostro,
     Che con cortese, e liberal costume
     Vogliate compiacere al prego nostro.
     Non fate, che l’ardor più mi consume
     L’humor, che mantien vivo il carnal chiostro.
     Che se punto il mio prego il cor vi move,
     Ambrosia, e nettar non invidio à Giove.