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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/216

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Deh Marsia allhor dicea, deh non è tanto
     L’error, ch’io fei, che merti si gran pena,
     Che spogli à la mia carne il primo manto,
     E ch’apra il guado ad ogni fibra, e vena.
     Apollo lascia à lui fare il suo pianto,
     E de la scorza il priva, e de la lena,
     E tanta pelle à la sua carne invola,
     Che tutto il corpo è una ferita sola.

Stilla il sangue da muscoli, e da vene,
     E ’n tutto il corpo suo rosseggia, e luce,
     E fan sanguigne le montane arene,
     E al misero Silvan toglion la luce,
     Tal, che ciascun, ch’in lui le ciglia tiene,
     Distilla in pianto l’una, e l’altra luce,
     I Satiri fratelli, e le Napee,
     I Fauni, l’Amadriade, e l’altre Dee.

Ogni Frigio pastor, ch’ in quel contorno
     À pascer si trovò gregge, od armento,
     Vedendo essere à lui levato il giorno,
     Che facea loro udir si bel concento,
     E restar del suo suon vedovo il corno,
     Et ogni altro suo musico istrumento,
     Concorse à lagrimarlo, e ’l ciel già chiaro
     Oppose un flebil nembo al volto amaro.

Di Marsia il sangue, e Ie lagrime sparte
     Da Semidei, da gli huomini, e dal cielo
     Render la terra molle in quella parte,
     E la terra al giovar rivolto il zelo,
     Si succia il tutto, e distillando parte
     Il bianco, e chiaro humor dal rosso velo,
     E ne le vene sue stillato in fiume
     Più basso alquanto il fà vedere il lume.

Distilla limpidissimo dal monte,
     E tien di Marsia il nome, e tanto scende,
     Seco tirando più d’un Frigio fonte,
     Che Dori in sen l’abbraccia, e salso il rende.
     Con queste historie manifeste, e conte
     Parla il saggio nel tempio, e ’l volgo intende,
     Fin predicendo à ogn’un malvagio, e rio,
     Che per suo fin non ha il timor di Dio.

Tutti del vecchio Re piangean la morte,
     De figli la fortuna adversa, e tetra,
     Ma nessun di colei piangea la sorte,
     Che ’l suo misero fin piange di pietra.
     Pur dal fratel ne la Thebana corte
     Un lungo, e mesto pianto il sasso impetra.
     Di Tantalo il figliuol Pelope solo
     Lagrimò ’l fato suo con questo duolo.

Quanto al mio padre pio d’obligo porto,
     Tanto di voi mi doglio eterni Dei,
     Poi c’hebbe il mio natal Tantalo scorto,
     Ch’ i giorni miei dovea far tristi, e rei,
     Mi ferì ’l core, e poi che m’hebbe morto,
     Varie vivande fè de membri miei,
     E mi diè cibo à voi ne’ miei prim’anni,
     Per tormi à queste pene, à quest’affanni.

Ma voi dal padre mio Numi invitati
     À le mie carni accortivi di questo,
     De membri miei, che in pezzi eran tagliati,
     Di novo il corpo mio feste contesto,
     Per farmi, come havean disposto i Fati,
     In tutti i giorni miei dolente, e mesto,
     E mandaste Mercurio al lago Averno,
     Per ritor l’alma mia, ch’era à l’ inferno.

Havesse almen di voi fatto ciascuno,
     Come Cerere fè, che non s’accorse
     Del cibo humano, e vinta dal digiuno
     La mia spalla sinistra elesse, e morse,
     Che se tutti i miei membri infino ad uno
     Mangiati haveste, non havriano forse
     Potuto unirmi un’ altra volta insieme,
     Per darmi in preda à le miserie estreme.

Ben che si come allhor mi rifaceste
     La spalla, che mangiò la Dea Sicana,
     Di dente d’elefante, e la giungeste
     Con la già cotta mia persona humana:
     Cosi rifatto anchor tutto m’havreste,
     Perc’havessi à veder l’aula Thebana
     Priva de la Reina mia sorella,
     E de la sua progenie illustre, e bella.