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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/217

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Priva di tutti i figli, e del consorte
     Pianger la vidi: et hor, se bene è pietra,
     Pensando à l’empio suo destino, e sorte,
     Le lagrime dal sasso anch’hoggi impetra.
     Quant’era me’ per me l’infernal corte,
     Però che la prigione eterna, e tetra
     Non dava à l’alma mia si gran tormento,
     Quanto hor, ch’ io godo il Sol, ne provo, e sento.

Cosi con duolo insolito, e infinito
     De l’alme de l’ imperio alto, e giocondo
     Pelope si dolea, ch’in quel convito
     L’havesser tolto al Re scuro, e profondo.
     Come fu per la terra il caso udito,
     Le città de la Grecia, e i Re del mondo,
     Come suol farsi in simili dolori,
     Mandar per consolarlo ambasciadori.

E Cipro, e Creta, e Rodi, e Negroponte,
     E ogni altro regno, che dal mare è cinto,
     E tutto quel, ch’è dentro, e fuor del ponte,
     Che fra due mar fa l’Istmo di Corinto,
     Mandar de l’eloquentia il miglior fonte
     À consolare il Re del germe estinto,
     E mancò sol di quel, che si conviene
     (Chi ’l crederia?) la più prudente Athene.

Ma scusa merta la Palladia corte,
     Se poca à tanto officio intese cura,
     Però, ch’allhor la Barbara cohorte
     Facea terrore à le Cecropie mura.
     Benche dapoi da un Barbaro più forte
     Fù l’Attica città fatta sicura,
     Tereo gli empi scacciò Barbari audaci,
     Figliuol di Marte, Imperador de Traci.

Fiaccato che ’l soccorso have le corna
     À la nemica, e Barbara insolenza,
     E salvato quel sen, che ’l mondo adorna
     D’ogni arte liberal, d’ogni scienza;
     Tereo non prima al suo regno ritorna,
     Che ’l grato Re de l’Attica potenza
     Per colligar più forte il Trace seco,
     L’avinse sposo al sangue Regio Greco.

D’Athene il Re, che Pandion fu detto,
     Hebbe due figli, Progne, e Filomena,
     Di si leggiadro, e si divino aspetto,
     Che non cedeano à la famosa Helena.
     Tereo con Progne fè comune il letto,
     E confermò la coniugal catena.
     Pronuba lor Giunone esser non volse,
     Ma ben con Himeneo lontan se ’n dolse,

Non vi comparse l’un, ne l’altro Nume,
     Ma fra lor se ne dolsero in disparte.
     L’alme tre gratie à l’infelici piume
     De i don, che soglion dar, non fecer parte.
     L’Erinni havendo in man l’ infernal lume,
     Poser nel letto il successor di Marte
     Con la donzella; e lasciò il gufo il nido,
     E fe sentire il suo noioso strido.

Ma come quei, che non sapeano i pianti,
     Ch’uscir dovean del coniugato amore,
     Con giostre, e con tornei, con suoni, e canti
     Si fè in Athene à le lor nozze honore.
     Tutti novi splendeano i varij manti
     Di valor, d’artificio, e di colore.
     Scoprì ogni donna allhora il suo thesoro,
     La perla oriental, la gemma, e l’oro.

Tereo fatte le nozze non s’arresta,
     Ma torna con la sposa al patrio lito,
     Dove la Tracia rinovò la festa,
     E salutò il suo Re fatto marito.
     Con pompa coronò la Greca testa,
     E nove giostre fè, novo convito.
     Ah quanto intorno al bene è ’l nostro inganno,
     Come spesso n’allegra il proprio danno.

Non prevedendo i minacciati scempi
     De lumi, ch’à mortai volgonsi intorno,
     Tereo ordinò, che ne’ futuri tempi
     Fosse honorato il mal’ inteso giorno,
     Per tutte le città, per tutti i Tempi,
     Che diè principio al nuttial soggiorno.
     Iti un suo figlio dopo al lume venne,
     E ’l dì del suo natal fe anchor solenne.