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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/218

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Dal dì, che Progne il padre Pandione
     Lasciò con Tereo, e l’Attica contrada,
     La madre de la moglie di Plutone
     Donata al mondo havea la quinta biada,
     Cinque volte il figliol d’Hiperione
     Fatta havea per lo ciel l’usata strada,
     Quando Progne con modo allegro, e dolce
     Cosi lusinga il suo marito, e molce.

Dolce consorte mio, s’ io dolce mai
     Ti fui ne l’età mia più verde, e bella,
     Concedemi, ch’ io possa andare homai
     À riveder la mia cara sorella.
     À la felice patria, ch’io lasciai;
     Ó fa, ch’ove son’ io, se ne venga ella.
     E s’al socero tuo paresse greve,
     Prometti à lui di rimandarla in breve.

Mosso il marito pio dal caldo affetto,
     Onde la dolce sua consorte il prega,
     Se ben non vuol, che lasci il Tracio tetto,
     La seconda dimanda à lei non nega.
     E, perche non gli sia dal Re disdetto,
     Tanto l’amor de la consorte il lega,
     Ch’in persona vuol gir sù le triremi,
     Per por, se manca il vento, in opra i remi.

Come l’altro mattin surge l’Aurora,
     À questa impresa il Re di Tracia accinto,
     Del porto di Bizantio uscendo fuora,
     Hor và dal remo, hor và dal vento spinto,
     E havendo à mezzodì volta la prora,
     Silibria à destra man lascia, e Perinto.
     Poi co’l corso del mar veloce, e presto
     Passa lo stretto, ch’è fra Abido, e Sesto.

Dal vento il buon nocchier spinto, e da l’ onde
     Ver l’isola di Tenedo camina,
     Vi giunge, e lascia à le sinistre sponde
     Troia, ch’allhor de l’Asia era Reina.
     Ecco un scoglio si mostra, un si nasconde
     Mentre fendendo và l’Egea marina
     L’Icario acquista, poi perde l’Egeo,
     E giunge al promontorio Cafareo.

Quivi à Libecchio poi volta la fronte,
     E lascia Andro à man manca, e ’l camin prende
     Ver l’estremo Leon di Negroponte,
     E ver la dotta Achaia il corso intende.
     E tanto innanzi và, ch’al Sunio monte
     Il soffio di Volturno in breve il rende,
     Verso Maestro poi tanto si tiene,
     Che ’l porto di Pireo prende, e d’ Athene.

Fù il Tracio Re dal socero raccolto
     Con quella hilarità, con quello honore,
     Che l’assedio chiedea, che gli havea tolto,
     E ’l novo parentado, e ’l gran valore.
     Poi c’hebber man’ à man con lieto volto
     Giunta l’Achivo, e ’l Tracio Imperadore,
     Con tristo augurio trattisi in disparte,
     Cosi parlò il figliuol, ch’uscì di Marte.

Se bene Amor m’havea l’alma infiammata
     Quanto si potea più di rivederti,
     Si per l’affinità, c’habbiam legata,
     Si per li tuoi maravigliosi merti:
     Non però questa la cagione è stata
     Che dar m’hà fatto i lini à i venti incerti,
     Che se ben’ io v’havea tutto ’l mio affetto,
     In Tracia mi tenea più d’un rispetto.

Quel, che mi fà lasciare in tempo il regno,
     Che per varij accidenti io non devrei,
     E che mi fà solcar l’onde su’l legno
     Per venire à smontare à i liti Achei,
     È ’l caro, fido, e pretioso pegno,
     Che piacque, e piace tanto à gli occhi miei.
     Progne la figlia tua la mia consorte,
     Per mar mi spinge à le Palladie porte.

L’amor de le prudenti tue figliuole
     M’han costretto à passar nel lito Greco,
     Che la consorte mia riveder vole
     L’altra figliuola tua, che restò teco.
     E se mancassi de le mie parole,
     lo non havrei mai più concordia seco,
     Ch’io le promisi qui trarmi in persona,
     E di questo pregar la tua corona.