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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/230

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Dissimular può à pena il petto infido
     Progne, e risponde per maggior suo scorno;
     Tuo figlio è teco entro al tuo proprio nido.
     Dà gli occhi il vecchio incauto d’ogn’intorno
     Poi ridice, io no’l veggio, ell’alza il grido;
     Ben’ hanno gli occhi tuoi perduto il giorno:
     Può far malvagio, e rio, che sia si cieco,
     Che non vegga il tuo figlio, havendol teco.

E dando forza al grido infuriato
     Lascia l’usanza Greca infetta, e guasta,
     E segue. Il tuo figliuolo empio hai mangiato
     Secondo egli era cotto in quella pasta.
     La sorella esce allhor da l’ altro lato
     Con la testa, ch’intera era rimasta,
     La mostra al miser vecchio, e ’l braccio sciolto,
     Fà, che percote il figlio al padre il volto.

Subito assalta il Re Megera, e Aletto,
     E fa la mensa riversar sul suolo,
     Ne potendo dar fuor, quel c’ hà nel petto,
     Vendicar cerca il misero figliuolo.
     Lascian le Greche allhor l’ iniquo tetto,
     E van fuor d’un balcon per l’aria à volo,
     Le quai volgendo à le lor membra il lume,
     Si veggono men grandi haver le piume.

Il dolor co’l desio de la vendetta
     Rendon l’offeso Re si crudo, e insano,
     Ch’anch’ei fuor del balcon si lancia, e getta
     Per punir quelle due co’l ferro in mano,
     E mentre, che per l’arla anch’ei s’affretta,
     E si sostien per non cader su’l piano,
     Come à le Greche insidiose avenne,
     Vede le membra sue vestir di penne.

Lascia il ferro crudel l’ irato artiglio,
     Et à la bocca un lungo rostro innesta,
     L’armano molte penne intorno il ciglio,
     Et hà l’ insegne regie anchora in testa,
     E dimostra il dolor, ch’egli hà del figlio
     Con la sdegnata vista atra, e molesta.
     Upupa alza la cresta, e bieco mira,
     E mostra il cor non vendicato, e l’ ira.

Nel più propinquo bosco entra, e s’asconde
     La Greca, che restò senza favella,
     La lingua hoggi hà spuntata, e corrisponde
     In parte à la sua sorte iniqua, e fella,
     Piangendo và il suo duol di fronde in fronde
     Con una melodia soave, e bella.
     Tien del suo incesto anchor vergogna, e cura,
     E non osa albergar dentro à le mura.

Progne, che diede à la vendetta effetto,
     E fu d’ogni altro error monda, e innocente,
     Il nido tornò à far nel regio tetto,
     E non hebbe vergogna de la gente.
     Del sangue del figliuol anchora hà il petto
     Macchiato, e se talhor le torna à mente,
     Tanta pietà per lui la move, e ancide,
     Che si querela un pezzo, e al fine stride.

Come corre à ingombrar l’ Attica corte
     La trista fama, e ’l miserabil caso,
     E come fersi augei di varia sorte,
     E del cotto fanciullo entro à quel vaso;
     Occupò Pandione il duol di sorte,
     Che ’l fece innanzi tempo ire à l’occaso:
     E poi che fu donato à l’urna, e al foco,
     Fù dato ad Eritteo lo scettro, e ’l loco.

Questi con tal prudentia il regno resse,
     Tanto benigno fu, tanto cortese,
     E contra ogni nemico, che l’oppresse,
     Si valorosamente si difese,
     Che qual titol d’honor meglio à lui stesse,
     Qual fosse in lui maggior, non fu palese,
     De le virtù, che si lodato il fenno,
     Ó la giustitia, ò la fortezza, ò ’l senno.

Costui di quattro giovani fu padre,
     E d’altrettante figlie adorne, e belle:
     Fra quai ve ne fur due tanto leggiadre,
     Che aggiunger non v’havria potuto Apelle.
     L’amate da la Dea d’Hespero madre,
     Procri sposò di queste due sorelle,
     L’altra detta Orithia di maggior zelo,
     Vide accender di se l’auttor del gielo.