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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/231

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Ben’ è maggior l’amor, che Borea accende,
     Poi che ’l fa più superbo, e men leale.
     Un dì mentre per l’aria il velo ei stende
     Tutto di ghiaccio il crin, la barba, e l’ale,
     E toglie (tanto il freddo ogni uno offende)
     Quasi à gli occhi del cielo ogni mortale,
     Con altre assai questa fanciulla vede,
     Che fan su’l ghiaccio sdrucciolare il piede.

Mentre di rimirar gode quel gioco,
     E per non le turbar non soffia, e tace,
     In mezzo à tanto ghiaccio accese il foco
     Nel freddo core Amor con la sua face:
     E si cresce la fiamma à poco, à poco,
     Che ’l giel, c’ hà intorno, in pioggia si disface,
     Tanto, che ’l giel, che si risolve, e fonde,
     À gli occhi suoi quella fanciulla asconde.

Ritorna in Tracia à la sua patria corte,
     E sentendo la fiamma ogni hor più ardente,
     Si consigliò di chieder per consorte
     La vergine, ond’egli arde, al suo parente.
     Subito fa, che l’ambasciata porte
     Fra tutti i suoi vassalli il più prudente.
     Il qual con grand’honor giunto in Athene
     Dimanda al Re la figlia, e non l’ottiene.

Fu in ogni tempo antico odio, e rancore
     Fra ’l sangue Tracio, e l’Attico lignaggio,
     Ma l’odio Greco havea fatto maggiore
     Il novo fatto à Filomena oltraggio.
     Tal, che ’l novo de Greci Imperadore
     L’ambasciadore udì con mal coraggio,
     E senza celar l’odio, ò farne scuse
     Le nozze Tracie à la scoperta escluse.

L’ambasciador rapporta al Tracio vento
     L’odio e ’l disprezzo da l’ Imperio Greco:
     E che preghi, promesse, oro, et argento
     Non poter far, ch’ imparentasse seco.
     Guardo l’irato Borea, e mal contento
     Ver Grecia con un guardo oscuro, e bieco,
     E sottoposto à l’ire, et à l’offese
     Cosi lo sdegno suo fece palese.

Deh perche l’arme mie poste hò in oblio,
     E ’l mio poter, ch’ogni potentia sforza,
     Perche vo usar contra il costume mio
     Lusinghe, e preghi, in vece de la forza?
     Io son pur quel temuto in terra Dio,
     Che soglio al mondo far di giel la scorza:
     Che quando per lo ciel batto le piume,
     Cangio la pioggia in neve, e ’n ghiaccio il fiume.

Tutto à l’immensa terra imbianco il seno,
     Quando in giù verso il mio gelido lembo,
     E come à la mia rabbia allento il freno,
     Apro il mar fino al suo più cupo grembo,
     E per rendere al mondo il ciel sereno,
     Scaccio da l’ aere ogni vapore, e nembo:
     E quando in giostra incontro, e che ’l percoto
     Vinco, et abbatto il nero horrido Noto.

Quando l’orgoglio mio per l’aria irato
     Scaccia i nembi vers’Austro, e soffia, e freme,
     E ’l forte mio fratel da l’ altro lato
     Altre nubi ver me ributta, e preme,
     E che questo, e quel nuvolo è sforzato
     Nel mezzo del camin d’urtarsi insieme,
     Io pur quel son, che con horribil suono
     Fo uscirne il foco, la saetta, e ’l tuono.

Non solo il soffio mio gli arbori atterra,
     Ma sia palazzo pur fondato, e forte.
     E se talhor m’ascondo, e sto sotterra
     Nel tetro carcer de le genti morte;
     Fo d’ intorno tremar tutta la terra,
     S’ io trovo à l’uscir mio chiuse le porte,
     E fin, ch’ io non essalo à l’aria il vento,
     Di tremore empio il mondo, e di spavento.

Non dovea farlo mai, ne si conviene
     Al mio poter d’usar lusinghe, ò preghi,
     Chieder la figlia à un picciol Re d’Athene,
     E dargli occasion, che me la neghi.
     Non si disdice à me, ch’à tanto bene
     Contra il voler di lui m’unisca, e leghi,
     À me stà ben con simili persone
     Usar la volontà per la ragione.