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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/26

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Lieto Apollo sen’ gia, gonfio, e superbo,
     D’havere ucciso il mostro horrendo, e crudo,
     Et incontrato in quel garzone acerbo,
     Contra il cui stral non vale elmo, ne scudo,
     Vedendogli incurvar le corna, e ’l nerbo
     À l’arco, e gir con tanta audacia ignudo,
     Si tenne à grande ingiuria, à grande incarco,
     Che sì fiero, et altier portasse l’arco.

Et à lui disse. Lascivo fanciullo,
     Che vuoi tu fare ò di saette, ò d’archi?
     Che sei nel mondo un gioco, et un trastullo,
     À quei, che di pensier son voti, e scarchi.
     Io quello hor son, ch’ogni valore annullo
     À ciascun, che quest’arme adopri, e carchi,
     Ch’ in altro spender sò le mie saette,
     Ch’ in ferir garzoncelli, ò giovinette.

À me sta ben usar l’arco, e lo strale,
     Che so con esso far più certa guerra,
     Far piaga più secura, e più mortale,
     E cacciar l’aversario mio sotterra.
     Trovai pur dianzi il più fero animale,
     Che si vedesse mai sopra la terra.
     E fu quest’arco poderoso, e forte,
     Ch’à Febo diede fama, al mostro morte.

Leggier fanciul con la tua face attendi
     Ad infiammare i più lascivi cori,
     Con quella ne i tuoi servi imprimi, e accendi
     Non so che vani tuoi scherzi, et amori;
     De l’arco nulla, over poco t’ intendi,
     Tutti i pregi son miei, tutti gli honori.
     Lo Dio d’Amor così punto, e schernito,
     Disse à lui, più che mai fiero et ardito.

Vaglia con fere pur l’arco, che mostri,
     Che ’l mio val contra te, contra ogni Dio,
     E quanto à gli alti Dei cedono i mostri,
     Tanto è minore il tuo valor, che ’l mio.
     Quest’arco, acciò che meglio io te ’l dimostri
     Farà di tanto ardir pagarti il fio.
     E spiegò ratto le veloci penne,
     E nel monte Parnaso il vol ritenne.

De la risposta sua maggior faretra
     Due strali sceglie di contrario effetto,
     Questo sprona ad amare, e quello arretra,
     Infiamma l’uno, e l’altro agghiaccia il petto.
     Questo fa l’huom di foco, e quel di pietra,
     Perc’hanno questo, e quel contrario obietto.
     È d’or quel, ch’ad amare inchina, e sforza;
     Di piombo quel, ch’ogni gran foco ammorza.

Torna con le nove armi à la vendetta,
     E trova il biondo Dio non meno altero.
     Tosto l’aurato stral tira, e saetta
     Il core al forte et oltraggioso arciero.
     Poi gli mostra una vaga giovinetta,
     Che gl’imprime nel cor novo pensiero:
     Lo stral di piombo allhor da l’arco scaccia,
     E ’l cor di quella ninfa indura, e agghiaccia.

Dafne, figlia à Peneo, fu l’alma, e bella
     Ninfa, che allhor solinga se ne giva,
     E cercando imitar Diana, anch’ella
     Fu de l’huom sempre mai nemica, e schiva.
     Molti, e molti cercar per moglie havella
     Per l’immensa beltà, che’n lei fioriva:
     Gli amori ella, e i connubij dispregiando,
     Sen’ giva à caccia per le selve errando.

Contenta hor questa, hor quella fera piglia
     Ne i boschi più selvaggi, e più remoti.
     Spesso il padre le disse, ò cara figlia
     Gia da te spero e genero, e nepoti.
     Proterva ella al contrario si consiglia
     Servare i casti suoi pensieri, e voti;
     Come fosse il connubio un grave eccesso,
     Conoscer non volea l’ignoto sesso.

Sparsa le guancie di color di rose,
     Il collo al padre dolcemente abbraccia,
     E con parole sante, e vergognose
     Disse. Deh padre mio dolce vi piaccia
     Che casta io possa per le selve ombrose
     De la triforme Dea seguir la traccia;
     E non vi paia tal richiesta strana,
     Che già il concesse il suo padre à Diana.