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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/25

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Cosi ripieno fu d’huomini il mondo,
     Che del loco natio fer poca stima:
     Girar fra i Poli, e l’Equinottio il tondo,
     Fin c’habitaro ogni paese, e clima.
     Al terren, più che mai lieto, e fecondo
     Mancava ogni animal, che v’era prima:
     E quelli ad uso de l’humana gente
     La terra partorì spontaneamente.

Che poi che riscaldò Febo il terreno,
     C’havea renduto dianzi humido il mare,
     E concepì nel suo fecondo seno
     La terra la virtù del generare:
     L’humido, e ’l caldo, temperate à pieno
     Le parti ove volean l’alme informare,
     Fer, che la terra parturì per tutto
     Questo, e quello animale, il bello, e ’l brutto.

Come quando le sette altere corna
     Unisce il Nilo, e ’l suo paese inonda,
     Tosto che nel suo letto antico torna
     E và lavando la sua ricca sponda:
     Fa d’animali assai se stessa adorna
     La terra, aitata dal Sole, e da l’onda,
     Ecco una fera intera, una imperfetta,
     Mezza n’è viva, e mezza è terra schietta.

E se ben l’acqua, e’l foco son discordi,
     Posson l’humido e ’l caldo unirsi insieme:
     E fatti amici, temprati, e concordi,
     Fan gravida la terra del lor seme.
     E se ben questo à quel par, che discordi,
     E sempre l’un l’altro contrario preme,
     Con la discorde lor concordia fanno,
     Che nascon gli animai, vivono, e vanno.

E non sol rinovò l’antiche sorti
     De gli animali à se stessa la terra,
     Ma spaventosi mostri, immensi, e forti,
     Ch’infinito animal cacciar sotterra;
     Ma più da te ne fur feriti, e morti,
     E n’hebbe tutto ’l mondo maggior guerra,
     Da te crudel Piton serpente ignoto
     Che quasi il mondo ritornasti voto.

Come una gran montagna era eminente,
     E nero d’un color, come d’inchiostro:
     Una grossa colonna era ogni dente,
     E n’havea tre corone intorno al rostro:
     Sembrava ogni occhio una fornace ardente
     Ogni membro, che havea, tenea del mostro.
     Febo al mondo levò sì grave incarco,
     Votando la faretra, oprando l’arco.

L’arco, che solo in cervi, in caprij, e ’n dame,
     Dal biondo Dio fu ne le caccie usato,
     Forò la pelle, e quelle dure squame,
     Onde il mostro crudel tutto era armato.
     E così Febo quella ingorda fame
     Spense, che ’l mondo havria tutto ingoiato.
     Et ucciso che l’hebbe, si disperse,
     E come prima in terra si converse.

E, perche ’l tempo ingordo non s’ingegni
     Tor la memoria di sì degna offesa;
     Più giochi instituì celebri, e degni,
     Per l’età giovenil nobil contesa.
     Chiamolli Pitij, e diè premij condegni
     Al vincitor d’ogni proposta impresa,
     Che per l’immense, e più lodate prove
     Si coronava de l’arbor di Giove.

Colui, che più veloce era nel corso,
     Il premio havea de l’arbore, e l’honore.
     E se col carro alcun meglio havea corso,
     Il medesmo ottenea pregio, e favore.
     Chi con più forza, destrezza, e discorso,
     Restava ne le lotte vincitore,
     Cingea di quelle frondi il capo à tondo,
     Ch’ancor non era il verde alloro al mondo.

Apollo allhor d’ogni arbor, d’ogni sorte
     Ornò le belle tempie, e ’l suo crin d’oro,
     Fin che ’l suo primo amor non fe di sorte,
     Che nacque al mondo il sempre verde alloro.
     E non fu l’empia, e dispietata sorte,
     Che ’l fece entrar ne l’amoroso choro;
     Ma sdegno, onde lo Dio d’amor s’accese,
     Per l’arroganza, che d’Apollo intese.