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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/269

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L’Aurora rapportato al mondo havea,
     Che già gli augei del Sol battean le piume,
     E sol nel ciel Lucifero splendea,
     E stava per coprire anch’egli il lume:
     Quand’ io con l’arma à me fedele, e rea;
     Che fu fatata dal triforme Nume,
     Ne vò à trovar le solitarie selve,
     Per dar la morte à l’infelici belve.

Come la preda al mio desir risponde,
     E dal più alto punto il Sol mi vede,
     Io fo, che rombra al suo splendor m’asconde,
     E che la lingua la dolce Aura chiede:
     Et ecco un mormorar di frasche, e fronde
     Le lasse orecchie mi risveglia, e fiede.
     Alzo la testa affaticata, e stanca,
     E sento, che ’l romor punto non manca.

Credo io, misero me, che il romor nasca,
     Poi che nel ciel non soffia aura, ne vento,
     Da selvaggio animal, ch’ivi si pasca.
     E, perche verso me calare il sento,
     Là, dove mormorar odo la frasca,
     Subito il dardo di Diana avento.
     Et ecco à le mie orecchie si trasporta
     L’amata voce, e dice, Oime son morta.

Come odo di colei la voce, ond’ardo,
     Corro come insensato incontro al grido,
     E trovo, che ’l mio crudo, e ingiusto dardo
     Passato à Procri ha il petto amato, e fido.
     Et abbassando al lume offeso il guardo
     Alzo piangendo un doloroso strido.
     Qual fato soavissima consorte
     M’ha tratto à darti co’l tuo don la morte.

Io toglio à la ferita il crudo telo,
     E straccio in fretta la sanguigna vesta,
     E avolgo intorno à la percossa il velo,
     Perche non esca il sangue, che le resta.
     Poi co’l più caldo, e affettuoso zelo
     La supplico con voce amara, e mesta,
     Che lasciar non mi voglia, e viva, e m’ame,
     Se ben sono homicida ingiusto, e infame.

Ella del sangue priva, e de la forza
     Alza ver me l’indebilita luce,
     E di parlarmi s’affatica, e sforza,
     E cosi il suo timor dona à la luce.
     Poi che lasciar vuol la terrena scorza
     Quell’alma, che ne gli occhi anchor mi luce,
     Come passata à l’altra vita io sono,
     Contenta l’ombra mia di questo dono.

Se ’l dolce più d’ogni altro almo, e beato,
     Che ’l soave Himeneo si porta seco,
     Al desir tuo fu mai giocondo, e grato,
     Mentre il nodo d’amor t’avinse meco;
     S’altro mai fei, ch’al tuo felice stato
     Gioia aggiungesse, mentre io vissi teco;
     Non soffrir, che già mai nel nostro letto
     L’Aura s’unisca al tuo carnal diletto.

L’ultime note sue m’aprir la mente,
     Che de l’amor de l’Aura hebbe timore,
     E che pensò, chiamandola io sovente,
     Che m’infiammasse il cor novello amore,
     E quivi era venuta ascosamente,
     Che con l’Aura volea cormi in errore.
     Bench’ io talmente al ver la lingua sciolsi,
     Che ’l non vero sospetto al suo cor tolsi.

Ma, che frutto traggo io da le mie note,
     Se ben l’ hanno il timor del petto tolto?
     Ella sempre più manca, e più che puote,
     Tiene il languido lume à me rivolto.
     Intanto con maniere alme, e devote
     Spira l’alma infelice nel mio volto.
     E ’l corpo già si bello, e si giocondo
     Resta ne le mie braccia immobil pondo.

Mentre stillar fa in lagrime ogni lume
     Con questo dir l’ambasciator d’Athene,
     Il Re, che già lasciate havea le piume,
     Con maestà fuor del suo albergo viene,
     Per gire al tempio à venerare il Nume,
     Come à lo splendor regio si conviene.
     Vanno i Re saggi ogni mattina al tempio,
     Per farsi altrui di ben’ oprare essempio,