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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/274

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Prima vuol vendicar sopra di Niso,
     Che ’l baston di Megara ha ne la palma,
     Androgeo, che gli fu con fraude ucciso,
     Dapoi, che de la lotta hebbe la palma.
     Però, c’havuto havea per certo aviso,
     Ch’ei procacciò, ch’egli perdesse l’alma.
     Ne men del Re d’Athene invidioso
     Cercò di darlo à l’ultimo riposo.

Ma s’ inganna d’assai, s’al primo crede
     Fargli patir la destinata pena.
     Che se ben facilmente ei porrà il piede
     Su l’odiosa, e traditrice arena,
     Non potrà torre al Re la regia sede,
     Ne sfogar quel desio, che in Grecia il mena,
     Se non gli toglie un crin, c’hebbe dal fato
     Per sicurtà del corpo, e de lo Stato.

Ma non essendo noto al Re Ditteo
     La mirabil virtù del crin fatale,
     Volle smontar nel lito Megareo,
     E porre assedio à la città reale.
     Venne in soccorso del Re Niso Egeo,
     Ma riportò la palma trionfale
     Il saggio Re di Creta, che l’astrinse
     À fare un crudo fatto d’arme, e ’l vinse.

D’Athene il cauto Re prudente, e saggio
     Perduta havendo homai tutta la spene,
     Vedendo del nemico il gran vantaggio,
     Co’l Re di Creta à questo accordo viene.
     Promette à lui di fargli ogni anno homaggio
     Di sette illustri giovani d’Athene,
     Acciò che per l’havuto in Grecia torto,
     Si vendichi su lor del figlio morto.

Non però di Megara il Re s’arrende,
     Ma vuol veder di quella pugna il fine,
     Tanta fiducia, e sicurtà gli rende
     Del regno, e de la vita il fatal crine.
     Partirsi il Re di Creta non intende,
     Se no’l condanna à l’ultime ruine,
     E già visto sei lune il mondo havea,
     Ne l’un, ne l’altro Re ceder volea.

Dentro à Megara un’alta torre sorge,
     Che fa d’altezza ad ogni altezza scorno,
     Che la terra ineguale, e ’l campo scorge
     Liquido, e salso à molte miglia intorno.
     La cui parete de la cetra porge
     Il suon del biondo Dio, ch’alluma il giorno.
     Già quando ivi s’aggiunse pietra à pietra,
     Trasse à se il suon de l’Apollinea cetra.

Quando fe fare Alcatoe quella torre,
     Chiamò fra gli altri Apollo à dargli aiuto:
     Il qual volendo un sasso in alto porre,
     Appoggiò à la parete il suo liuto.
     Subito il muro il suon gli venne à torre,
     E sol fra gli altri sassi non fu muto;
     Ma da marmo, ò d’acciar percosso alquanto
     Puro rendea di quella cetra il canto.

Il Re, che de la chioma altero andava,
     Hebbe una figlia d’un leggiadro aspetto,
     La qual del suon, che l’alta torre dava,
     Spesso prender solea sommo diletto.
     Però sovente in cima vi montava,
     E dava luogo al giovenile affetto
     Là dove percotea marmi con marmi,
     Et unia con quel suon la voce, e i carmi.

Ma poi, che ’l Re Ditteo mosse la guerra
     Per vendicar l’ucciso Androgeo al padre,
     Vi salia per veder fuor de la terra
     Le patrie urtarsi, e le nemiche squadre.
     E già del campo altier ch’ Alchatoe serra,
     À molte sopraveste auree, e leggiadre,
     Conosceva i più illustri cavalieri,
     E quei, che ne la pugna eran più fieri.

L’eran già noti gli habiti, e i cavalli,
     Le divise, i color, l’argento, e l’oro,
     Che facean fregio à lucidi metalli,
     E sapea i nomi, i gradi, e pesi loro.
     Ma ne’ conflitti, e martiali balli
     Quel, che d’ Euro nacque, e d’un toro,
     Più le piacea d’ogni altro invitto duce,
     Ne mai toglier da lui sapea la luce.