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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/279

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Ma tu crudel, che torni vincitore
     Per mezzo mio, per l’empio error, ch’io fei,
     Perche mi vuoi punir di quello errore,
     Che t’orna di si rari alti trofei?
     Tu ’l beneficio, e ’l mio soverchio amore
     Con grato officio riconoscer dei:
     M’ han gli offesi à punir del mio peccato,
     Ma non m’amando tu ti mostri ingrato.

Ben è degna di te la tua consorte,
     Ben tu crudel di lei non men sei degno,
     Poich’ambi l’alma havete d’una sorte,
     Ferino ambi l’amor, ferin lo sdegno.
     Le voglie di Pasife infami, e torte
     La fecer ne la vacca entrar del legno,
     Per sottoporsi, ò Dei, (chi fia che ’l creda?)
     À fero Amor, per darsi à un toro in preda.

Già l’amor la tua madre à un toro volse,
     Quando nel grembo suo ti diè ricetto.
     La moglie tua non men lasciva volse
     Gustar d’un Toro il coniugal diletto.
     E però l’amor tuo me non raccolse
     Vergine essendo, e di reale aspetto.
     Che poi che sei da tal razza disceso,
     Forse qualche giuvenca il cor t’ha preso.

Se la tua moglie con si raro essempio,
     Ad un bue più ch’à te volse il pensiero,
     Maraviglia non è, che ’l tuo cor empio
     Havea più del selvaggio, e più del fero.
     E fede ne può far mio duro scempio,
     Ch’offerto t’ ho il mio cor, dato il mio impero,
     E tanto beneficio amore, e fede,
     Non ha potuto in te trovar mercede.

Tu te ne vai crudel, ne ti par grave
     Lasciarmi in tanta pena, affanno, e doglia:
     Ma ad onta tua la tua non grata nave
     Porterà anchor la mia terrena spoglia.
     M’ atterrò ne la poppa à qualche trave,
     E ti seguiterò contra tua voglia,
     E dove ti farai dal pin portare,
     Vedrò trarmi anchor’ io per tanto mare.

Vede fermato il legno regio alquanto,
     E star piegata anchor la poggia, e l’orza,
     Salta ne l’onde la donzella intanto,
     Amor l’accresce l’animo, e la forza,
     E con mani, e con piè s’adopra tanto,
     Che giunge al legno, e tanto ivi si sforza,
     Ch’appoggiata al timon tant’alto poggia,
     Ch’à un legno al fin non commodo s’appoggia.

Stà intanto il padre ritirato à l’ombra
     Sopra una torre ad un balcone, e guata,
     E mesto dal dolor, che ’l cor gli ingombra,
     Vede partir la vincitrice armata.
     Hor mentre ogni navilio il porto sgombra,
     Vede l’infida figlia empia, et ingrata
     Come à la poppa regia appresa stasse
     Per andar via con la Cretense classe.

Alzando il padre afflitto al cielo i lumi,
     Dice con grande affetto; Ó sommi Dei
     Se mai fur grati à vostri santi Numi
     Gl’incensi, e preghi, e sacrificij miei,
     Fate, che ’l corpo mio s’ impenni, e impiumi,
     Si ch’ io possa su’l mar punir costei.
     Date à l’animo mio l’ale, e la lena,
     Si ch’ io le dia la meritata pena.

E spinto dal desio de la vendetta,
     Che contra il sangue suo proprio l’accende,
     Senza pensar fuor del balcon si getta,
     E in aria ver la figlia il corso prende.
     Hor mentre più si scuote, e più s’affretta,
     Vede che due grand’ali allarga, e stende,
     La bocca humana in rostro si trasforma,
     Et ogni parte sua d’Aquila ha forma.

Ma non è la ver’Aquila, che questa
     Frequenta ovunque il mare, e ’l fonte allaga,
     Et à gli augelli aquatici è molesta,
     Ne men, che de gli augei del pesce è vaga.
     Contra la figlia và crudele, e presta,
     Là dove giunta la percote, e piaga,
     Co’l rostro, e con gli artigli empia l’assalta,
     Tal, ch’ella il legno lascia, e nel mar salta.