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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/285

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Ma quando poi la sventurata porge
     Dentro à le tende in ogni parte il lume,
     E fra i duo lini anchor tepidi scorge,
     Ch’ ivi non gode il suo Teseo le piume,
     In lei l’ira, e ’l dolor maggior risorge,
     E d’ogni luce fa di novo un fiume.
     Dove al fin si posar l’ingrate membra,
     Si posa, e ’l suo dolor cosi rimembra.

Ó falso albergo de riposi miei,
     Quanto il tuo honor, quanto il mio stato offendi:
     Ó quanto ingiusto, ò quanto infido sei,
     Ó quanto male al tuo debito intendi.
     Hiersera à la tua fe due ne credei,
     Hor, perche nel mattin due non ne rendi ?
     Tu manchi troppo à la ragione, e al vero,
     Se ’l deposito mio non rendi intero.

Dove hai posto infedel, che più non veggio
     Del deposito mio la miglior parte ?
     Dove, oime, per ragion ricorrer deggio
     In questa inculta, e solitaria parte?
     Quest’isola non hà pretorio seggio,
     Anzi mancando di cultura, e d’arte,
     D’ogni commercio human la credo ignuda,
     E albergo d’ogni fera horrenda, e cruda.

Qui non son navi, e son cinta dal mare,
     Ne qui spero rimedio à tanta doglia:
     Ma poniam, ch’un nocchier vegga arrivare,
     Che per pietate à l’isola mi toglia,
     In qual’ arena mi farò portare ?
     Qual terra troverò, che mi raccoglia?
     Debbo tornare al monte patrio d’Ida,
     Dove al fratel fui cruda, al padre infida?

Quand’io, Teseo, co’l filo, e co’l consiglio
     Tolsi à la patria tua si dura legge,
     Giurasti per lo tuo mortal periglio,
     Su’l libro pio, che su l’altar si legge,
     Che mentre non prendea dal corpo essiglio
     Lo spirto, che ’l mortal ne guida, e regge,
     Sempre io la tua sarei vera consorte,
     Ne à te mi potria torre altro, che morte.

Ma non son però tua, ben ch’ambedui
     Viviam; se si può dir però, che viva
     Donna sepolta dal periurio altrui,
     E d’ogni human commercio in tutto priva.
     Deh, perch’ io anchor co’l mio fratel non fui
     Da te donato à la tartarea riva?
     Che s’havessi ancho à me la vita tolta,
     Saria la fede tua rimasa sciolta.

Ne solo innanzi à gli occhi m’appresento
     La morte, c’ho à patir, che fia solo una;
     Ma quanto stratio, e mal, quanto tormento
     Può dar la crudeltate, e la fortuna.
     Co’l pensier veggio colma di spavento
     Mille forme di morte, empia ciascuna.
     E’l tardar suo di mal mi fa più copia,
     Che non farà dapoi la morte propia.

Lupi affamati, e rei veder mi pare
     Uscir di folte macchie, over sotterra,
     Orsi, Tigri, e Leon, se pur cibare
     Quest’isola ne suol per farmi guerra.
     Dicon anchor, che suol tal volta il mare
     Mandar le Foche, e le Balene in terra:
     E al fin di questi, e ciascun altro male
     Un sol n’ ho da patir, ma non sò quale.

Ma, s’io discorro ben, non è la morte
     La pena, ch’in me può cader più rea.
     Quanto saria peggior l’empia mia sorte,
     Se capitasse qui fusta, ò galea,
     E fosse serva di si vil cohorte
     Chi comandava à l’isola Dittea,
     Del Re saggio Ditteo la vera prole,
     Gli avi eccelsi di cui son Giove, e ’l Sole.

Che peggio haver potria, se fosse serva
     De gl’infami ladron de la marina,
     Colei, che ne la terra di Minerva
     Insieme esser dovea moglie, e Reina.
     Venga prima ogni fera empia, e proterva,
     E mi condanni à l’ultima ruina,
     E faccia il dente suo contento, e satio
     Del miser corpo mio con ogni stratio.