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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/29

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E ’ncontrando le mani intorno al legno
     L’abbraccia come fosse un corpo humano,
     Il bacia, ma del bacio fugge il segno
     L’arbore, che ’l risolve, e ’l rende vano.
     Gli parla, e dice; Arbore eccelso, e degno
     Dapoi, che sposa io t’ho bramata in vano,
     Tu sarai l’arbor mio, tu la mia cetra,
     Tu la chioma ornerai, tu la faretra.

Tu cingerai l’invitto capo intorno
     A i sommi trionfanti Imperatori
     In quel festivo, e glorioso giorno,
     Che i merti mostrerà de i vincitori;
     E ’l Tarpeio vedrà superbo, e adorno
     Le ricche pompe, e trionfali honori.
     Le porte auguste ornerai di ghirlande
     Havendo incontro l’honorate ghiande.

Le bionde giovinil mie lunghe chiome
     Non mai da ferro, ò man tronche, ò scorciate,
     De le tue frondi, e del tuo laureo nome
     Andran mai sempre alteramente ornate.
     I sommi rami suoi fer cenno, come
     De l’arbor capo esser’ accette, e grate
     Le sue larghe promesse più, che prima,
     Chinando spesso la cortese cima.

Ha l’Emonia una valle ampia, et amena,
     Cinta intorno di selve alte, et ombrose,
     Che è detta Tempe, dove in giro mena
     Il Peneo l’onde sue torte, e spumose;
     E di tal nebbia tien l’aria ripiena,
     Ch’avanza l’alte selve, e tienle ascose;
     E ’l suo gran mormorar tanto si stende,
     Ch’ intorno più, che i suoi vicini offende.

Qui di spugnosi sassi è l’alta sede,
     E l’antro opaco del potente fiume:
     Dove à dar leggi à l’onde altier risiede,
     Et à le Ninfe, c’ han l’onde per nume.
     Ogni fiume che à lui propinquo siede,
     Venne à servar l’antico suo costume,
     Dubbij tra lor di quel, c’haveano à farsi,
     O da dolersi seco, ò d’allegrarsi.

Fra l’adorne di pioppi ombrose sponde
     Vi vien lo Sperchio, e l’Enipeo inquieto,
     L’Apidan’ vecchio con le sue fredde onde,
     E l’Anfriso piacevole, e quieto;
     Et altri, et altri ne vennero altronde
     Per far quell’atto fra doglioso, e lieto.
     E fer con dignitade, e con decoro
     Quel, che s’apparteneva al caso, e loro.

Inaco sol restò, ch’ivi non venne,
     E mancò sol di quel, che far dovea:
     Onde imputato da qualch’un ne venne,
     Che ’l suo grande infortunio non sapea.
     Di far sì degno ufficio lui ritenne
     Una sua figlia che perduta havea,
     Per cui ne l’antro suo chiuso si giacque,
     Forze acquistando col suo pianto à l’acque.

Tien per trovarla ogni modo, ogni via,
     E più, che n’ investiga, men ne sente;
     Ne può pensar, ch’ in alcun luogo sia,
     Ne che dimori fra l’humana gente,
     Poi che luogo non trova dove stia,
     In qual si voglia Occaso, et Oriente.
     Io, nome havea la fanciulla, e per frodo,
     Fu trafugata al padre à questo modo.

La vide un dì partir dal patrio speco
     Giove, e disse ver lei con caldo affetto;
     O ben degna di me, chi fia, che teco,
     Vorrai bear nel tuo felice letto?
     Deh vienni ò Ninfa fra quest’ombre meco,
     Che fian hoggi per noi dolce ricetto,
     Mentre alto è ’l Sol, che ’l suo torrido raggio
     Non fesse à tal beltà noia, et oltraggio.

E se qualche animal nocivo, e strano
     Temi, che non t’offenda, ò ti spaventa,
     Non temer, che quel Dio vero, e soprano,
     C’ha lo scettro del Ciel, mai gliel consenta,
     Quel Dio, che con la sua sicura mano
     Il tremendo dal Ciel folgore aventa,
     Non fuggir Ninfa me, che son quell’io,
     Del Ciel signore, e folgorante Dio.