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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/30

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Fugge la bella Ninfa, e non ascolta:
     Ma Giove, che d’haverla era disposto,
     Fe nascer una nebbia oscura, e folta,
     Che con la Ninfa il tenesse nascosto.
     Quì lei fermata, et à suoi prieghi volta,
     Non pensa di partirsi così tosto,
     Ma seco quel piacer sì grato prende,
     Che quel, ch’ama, e l’ottien, beato rende.

Gli occhi in tanto Giunon chinando à terra
     Vide la spessa nebbia in quel contorno,
     E che poco terren ricopre, e serra,
     E ch’in ogn’altra parte è chiaro il giorno.
     Vedendo, che ne i fiumi, ne la terra
     L’han generata, riguardando intorno,
     Del marito ha timor, che’n ciel non vede,
     E conosce i suoi furti, e la sua fede.

Nol ritrovando in cielo è più che certa,
     Che sian contra di se fraudi, et offese.
     Discende in terra, e quella nube aperta
     Non se le fe quel, che credea, palese.
     Giove, che tal venuta havea scoperta,
     Fe, che la donna un’altra forma prese;
     E fe la violata Ninfa bella
     Una matura, e candida Vitella.

Poi finse per diporto, e per ristoro
     Andar godendo il bel luogo, ove egli era.
     Giunon con gelosia, con gran martoro
     La giuvenca mirò sdegnata, e altera,
     Pur finge, e dice, ò ben felice Toro,
     Che goderà così leggiadra fera.
     Cerca saper qual sia, donde, e di cui,
     E di che armento, e chi l’ha data à lui.

Per troncar Giove ogni sospetto, e guerra,
     Che la gelosa già nel suo cor sente:
     Perche non ne cerchi altro, che la terra
     L’ha da se parturita, afferma, e mente.
     Ella, c’haver non vuol quel dubbio in terra,
     Cerca, che voglia à lei farne un presente.
     Che farai, Giove? a che risolvi il core?
     Quinci il dover ti sprona, e quindi amore.

Troppo è contra il suo fin, ch’egli si spoglie
     D’una vita sì dolce, e sì gioiosa;
     Ma se nega à la sua sorella, e moglie,
     Che sospetto darà, sì lieve cosa?
     Amor vuol, ch’ei compiaccia à le sue voglie,
     Ma non vuol già la sua moglie ritrosa,
     Al fin per torle allhor quel gran sospetto,
     Tolse à se stesso il suo maggior diletto.

Così la Dea ben curiosa ottiene
     Quel don, che tanto travagliata l’have,
     Ne però tolto quel timor le viene,
     Che l’imprime nel cor cura sì grave,
     Anzi tal gelosia nel cor ritiene,
     Che novi inganni, et novi furti pave,
     Onde diè il don, che sì l’accora, e ’nfesta,
     In guardia ad un, che havea cent’occhi in testa.

Argo havea nome il lucido pastore,
     Che le cose vedea per cento porte.
     Gli occhi in giro dormian le debite hore,
     E due per volta havean le luci morte.
     Gli altri spargendo il lor chiaro splendore
     Tra lor divisi fean diverse scorte.
     Altri havean l’occhio à la giuvenca bella,
     Altri intorno facean la sentinella.

Ovunque il bel pastor la faccia gira,
     C’ha di sì ricche gemme il capo adorno,
     À la giuvenca sua per forza mira,
     Perche egli scuopre anchor di dietro il giorno.
     Ne gliè d’huopo, s’altrove ella s’aggira,
     Voltar per ben vederla il capo attorno,
     Che se ben dietro à lui si parte, ò riede,
     Dinanzi à gli occhi suoi sempre la vede.

Lascia, che pasca il dì l’herbose sponde,
     Che sparte son nel suo bel patrio regno.
     Acque fangose, et herbe amare, e fronde,
     Le sue vivande sono, e ’l suo sostegno.
     Ma, come il Sol ne l’Ocean s’asconde,
     Argo le getta al collo il laccio indegno,
     E le sue piume son, dove la serra,
     La non ben sempre strameggiata terra.