Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/31

Da Wikisource.

Tal volta l’infelice apre le braccia
     Per abbracciar il suo novo custode,
     Ma col piede bovin da se lo scaccia,
     Ne man può ritrovar’ onde l’annode.
     Pregar il vuol, che d’ascoltar li piaccia,
     Ma come il suo muggire horribil’ode,
     Scorre di quà, di là tutto quel sito,
     Fuggendo se medesmo e ’l suo muggito.

Dove la guida il suo pastor, soggiorna,
     Pascendo l’herbe fresche, e tenerelle.
     À le paterne rive un dì ritorna
     Dove giucar solea con le sorelle,
     Ma come le sue nove altere corna
     Mira ne l’acque cristalline, e belle,
     S’adombra tutta, e si ritira, e mugge,
     E mille volte vi si specchia, e fugge.

Le Naiade non san, che la vitella,
     Che vuol giucar con loro, e le scompiglia,
     Sia la perduta lor cara sorella.
     Et Inaco non sa, che sia la figlia.
     Tutto quel, ch’esse fan, vuol fare anch’ella,
     Dando à tutti di se gran maraviglia.
     Toccar si lascia, e fugge, e torna à prova,
     Come fa il can, che ’l suo padron ritrova.

Mentre scherzando ella s’aggira, et erra,
     Il mesto padre suo grato, et humano,
     Svelle di propria man l’herba di terra,
     À lei la porge, e mostra di lontano.
     Ella s’accosta, e leggiermente afferra
     L’herba, e poi bacia la paterna mano.
     Dentro à se piange, e direbbe anche forte,
(Se potesse parlar) l’empia sua sorte.

Pur fa, che ’l padre (tanto, e tanto accenna)
     Seguendo lei nel nudo lito scende,
     Dove l’unghia sua fessa usa per penna
     Per far noto quel mal, che sì l’offende.
     Rompe col piede al lito la cotenna,
     Per dritto, per traverso, e ’n giro il fende,
     E tanto, e tanto fa, che mostra scritto
     Il suo caso infelice al padre afflitto.

Quando il misero padre in terra legge,
     Che la figlia da lui cercata tanto,
     È quella, che credeva esser del gregge
     Nascosta sotto à quel bovino manto,
     À pena in piè per lo dolor si regge,
     Raddopia il duol, la pena, il grido, e ’l pianto.
     Le nove corna à la sua figlia abbraccia,
     Baciando spesso la cangiata faccia.

Ó dolce figlia mia, che in ogni parte
     Da dove nasce il Sol fin à l’Occaso,
     Già ti cercai, ne mai potei trovarte,
     E finalmente hor t’ ho trovato à caso.
     Figlia onde il cor per gran duol mi si parte,
     Mentre ch’ io penso al tuo nefando caso,
     O dolce figlia mia, deh chi t’ ha tolto
     Il tuo leggiadro, e delicato volto?

Deh perche col parlar non mi rispondi,
     Ma sol col tuo muggir ti duoli, e lagni?
     E ’l mio parlar col tuo muggir confondi?
     E col muggito il mio pianto accompagni?
     Tu sai dal mio parlar, che duol m’abondi;
     Veggo io dal tuo muggir, come tu piagni.
     Io parlo, e fo quel, che si dè fra noi,
     Ma tu sol muggi, e fai quel, che far puoi.

Oime che le tue nozze io preparava
     Far con pompa, con gaudio, e con decoro,
     Onde nepoti, e genero aspettava
     Per la mia vecchia età dolce ristoro.
     È questo dunque il ben, ch’io ne sperava?
     Dunque ho da darti hor per marito un toro?
     Dunque i vitelli al nostro ceppo ignoti
     I tuoi figli saranno, e i miei nepoti?

Potessi almen finir con la mia morte
     L’intenso, e dispietato dolor mio,
     Che à fin verrei di sì perversa sorte.
     Veggo hor quanto mi noccia essere Dio.
     Poi ch’al morir mi son chiuse le porte,
     Che posso altro per te, che dolermi io,
     E mentre rotan le celesti tempre,
     Il tristo caso tuo pianger mai sempre.