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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/32

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Mentre il misero vecchio anchor si duole,
     E tutte le sue pene in un raccoglie,
     Lo stellato pastor, che la rivuole,
     Presente il padre la rilega, e toglie,
     E per diversi pascoli, ove suole
     Condurla spesso, la rimena, e scioglie.
     Egli in cima d’un colle fa soggiorno,
     Che scopre la foresta intorno intorno.

Giove non vuol, come ben grato amante,
     Ch’in sì gran mal l’amata sua s’ invecchi,
     Onde al suo figlio, e nipote d’Atlante
     Commette, che contra Argo ir s’apparecchi,
     E, perche non sia più sì vigilante,
     Vegga di tor la luce à tanti specchi.
     Tosto ei la verga, e l’ali, e ’l pileo appresta
     A le mani, et à piedi, et à la testa.

Lasciata l’alta region celeste
     Ne la parte più bassa se ne venne,
     Dove giunto mutò sembiante, e veste,
     E lasciò il suo cappel, lasciò le penne;
     Per far dormir le tante luci deste,
     Sol la potente sua verga ritenne,
     E, dove è quel pastore, il camin prese,
     Che ’n capo tien tante facelle accese.

Come rozzo pastor gli erra da canto,
     Che à le fresche herbe il suo gregge ristora,
     E con le canne sue sì dolce canto
     Rende, che n’addolcisce il cielo, e l’ora.
     Hor l’occhiuto pastor, che l’ode intanto,
     Di sì soavi accenti s’ innamora,
     E dice à lui, qui meco venir puoi,
     C’havrem grata herba, et ombra, il gregge, e noi.

Il cauto Dio fa tutto quel, che vuole
     L’aveduto custode, e circospetto,
     E col suon dolce, e le saggie parole
     Cerca addolcirgli il senso, e l’intelletto.
     D’Argo molti occhi han già perduto il Sole,
     E forza è, che stian chiusi à lor dispetto;
     Ma molti ei ne tien desti, e gli ritarda,
     E con quei vegghia, e la giuvenca guarda.

Mentre in parte discorre, in parte sogna,
     E non dà noia al discorso il sognare,
     Col pensier desto di sapere agogna,
     E ’l pastor prega, che voglia contare,
     Come fu ritrovata la sampogna,
     Che sì soavemente ei sa sonare.
     Disse quel Dio, cantando in dolce tuono,
     Facendo pausa al suo cantar col suono.

Ne i gelati d’Arcadia ombrosi monti
     Fra l’Amadriadi Nonacrine piacque
     Una, che Naiade era, che in quei fonti,
     Che surgon quivi, fe sua vita e nacque.
     Satiri e Fauni, e Dei più vaghi, e conti,
     Sempre scherniti havea; tanto le spiacque
     Il commercio d’Amor, quasi empio, e stolto,
     Per havere à Diana il suo cor volto.

Siringa nome havea la Ninfa bella,
     Che studiò d’ imitar l’Ortigia Dea
     Con la virginità, con la gonnella,
     Con ogni cosa, ch’essa usar solea.
     Non si riconoscea questa da quella,
     Ch’ in ambe ugual beltà si discernea.
     Nel l’arco sol disconvenner tra loro,
     Questa l’usò di corno, e quella d’oro.

Mentre ella un dì dal bel Liceo ritorna
     Casta nel cor, nel volto allegra, e vana,
     La vede un Dio, c’ha due caprigne corna,
     Co i piè di capra, e con sembianza humana:
     Com’ei la vede sì vaga, e sì adorna,
     Ne sa, che ’l cor sacrato habbia à Diana,
     Le dice, ò Ninfa, à i dolci voti attendi,
     E quel Dio, che ti vuol, marito prendi.

Havea molto che dir Mercurio intorno
     A quel, che à Pane in questo amore occorse,
     Il qual di Pino, e di corona adorno,
     In van pregolla, in van dietro le corse,
     E come corso havrian tutto quel giorno,
     Se non, che un fiume à lor venne ad opporse,
     Che ’l Ladon fiume il correre impedio
     A la gelata Ninfa, al caldo Dio.