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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/33

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Là dove giunta pregò le sorelle,
     Che volesser salvarla in alcun modo,
     E s’appreser le piante tenerelle
     Al terren paduloso, e poco sodo,
     Che tutte l’ossa sue si fer cannelle,
     Ch’ogni giuntura sua si fece un nodo,
     Che gran foglie si fer le vesti tosto,
     E tutto ’l corpo suo tenner nascosto.

E che correndo Pane in abbandono
     Pensò tenerla, e sfogar la sua voglia,
     E che prese una canna, donde un tuono
     Flebile uscia, come d’huom, che si doglia,
     Che mentre ella spirò, rendè quel suono
     Il vento mosso in quella cava spoglia,
     E come Pan da tal dolceza preso;
     Disse; In van non havrò tal suono inteso.

E di non pari calami compose
     Con cera aggiunti il flebile istrumento.
     A cui poscia Siringa nome pose
     Dal nome suo, da quel dolce lamento.
     Dovea dir queste con molte altre cose
     Mercurio intorno à questo scambiamento,
     Ma perche gia tutte le luci chiuse
     In Argo scorse, il suo parlar conchiuse.

Da la sampogna il suono, e la favella
     Da la sua lingua subito disgiunge.
     Con maggior sonno poi gli occhi suggella,
     Che con la verga sua toccando aggiunge.
     Sfodra la spada sua lucida, e bella,
     E dove il capo al collo si congiunge,
     Fere, e tronca la spada empia, e superba,
     E macchia del suo sangue i fiori, e l’herba.

Argo tu giaci, e ’l gran lume, che havevi
     In tanti lumi, un sol colpo ti fura.
     Tanti occhi, onde vegghiar sempre solevi,
     Perpetuo sonno hor t’addormenta e tura.
     E ’l dì, che più d’ogn’un chiaro vedevi,
     Una infelice, e trista notte oscura.
     Solo una man con tuo gran danno, e scorno
     T’ha tolto i lumi, la vigilia, e ’l giorno.

Ma la gelosa Dea, che gli occhi à terra
     Chinava spesso al suo fido pastore,
     Quando il vide giacer disteso in terra,
     E ’l capo tronco senza il suo splendore,
     E ch’empia morte quei bei lumi serra,
     I quai soleano assicurarle il core,
     Dal morto capo quei cent’occhi svelle,
     E fa le penne al suo pavon più belle.

Empie di gioie la superba coda
     Del suo pavone, e gli occhi, che distacca
     Dal capo tronco, ivi gl’imprime, e ’nchioda,
     E con mirabil’arte ve gli attacca.
     Tutta arrabbiata poi la lingua snoda;
     Dunque, disse, debb’ io per questa vacca
     Sempre star’ in sospetto, in pene, e ’n guai,
     E non mi debbo risentir già mai?

Non pon già tempo in mezzo à la vendetta,
     Ma fa venire una furia infernale
     Contra la figlia d’Inaco, ristretta
     Dentro à la scorza d’un brutto animale.
     Là dove giunta il corpo, e l’alma infetta
     Di quella afflitta, e giunge male à male:
     E tal furor’ à lei ne l’alma porse,
     Che tutto ’l mondo profuga trascorse.

La spiritata bestia scorre, e passa
     Dove il rabbioso suo furor la mena:
     E s’alcun le s’oppon, le corna abbassa,
     E ’l fa cader da l’aria in sù l’arena.
     Gli huomini, e gli animali urta, e fracassa,
     Che à tempo à lei non san voltar la schena.
     Tu solo altero Nil restavi in terra
     A veder la sua rabbia. e la sua guerra.

Là dove giunta prostrata su ’l lito
     Sol col volto, e con gli occhi al ciel s’eresse.
     E con un sospirar, con un muggito,
     Che veramente parea, che piangesse,
     Parea, che con Giunone, e col marito,
     De’ suoi strani accidenti si dolesse,
     E che chiedesse il fin come innocente
     Del suo doppio martir, che prova, e sente.