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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/34

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Giove con grato modo, e caldo affetto
     Per ammorzare ogni rancore, e sdegno,
     Che rode à la gelosa moglie il petto,
     Per l’acque giura del Tartareo regno,
     Che mai più non havrà di lei sospetto,
     E tenga il giuramento Stigio in pegno:
     E prega, che placare homai si voglia,
     E torle quella rabbia, e quella spoglia.

Udito il giuramento allegra torna
     Giunon, et Io racquista il primo stato.
     Si fan due bionde treccie ambe le corna,
     Ogni altro pel da lei toglie commiato.
     L’occhio suo come pria picciol ritorna,
     Il volto è più che mai giocondo, e grato.
     E tornata che fu l’humana faccia,
     I piè dinanzi suoi si fer due braccia.

L’unghia sua fessa di novo si fende
     D’altri tre fessi, che fan cinque dita.
     La man già si disnoda, e già s’arrende,
     E torna più, che mai sciolta, e spedita.
     Tosto si leva, e in alto si distende,
     E ferma sù due piè tutta la vita.
     Mutata tutta in un punto si vede:
     E quanto più le par, men’ ella il crede.

Volea parlar per veder s’era quella,
     Ch’esser solea, ma temea non muggire.
     Apre la bocca al dir, poi la suggella
     Per non udir quel, che fuggia d’udire.
     S’arrischia al fin, ma con rotta favella
     Tutta dubbiosa sotto voce a dire.
     E poi, che ’l caso suo conobbe espresso,
     Il Ciel ringratiò del buon successo.

À cui dapoi più d’un tempio s’eresse,
     E venerata fu fra gli altri Dei.
     Onde si tien, che di Giove nascesse
     E Pafo, un bel figliuol, ch’uscì di lei.
     Et in segno di ciò, par, ch’egli havesse
     Nel mondo tempij assai giunti à costei,
     D’animo, e d’anni uguale hebbe in quel tempo
     Un figliuol di colui, che tempra il tempo.

Fer sì la nobiltà, gli anni, e ’l valore,
     C’hebber contesa de la precedenza,
     Ch’esser questo di quel volea maggiore,
     Ciascun per la celeste discendenza.
     E stavan sì ne i punti de l’honore,
     Che ne fu gran querela, e differenza.
     Perche Fetonte il bel figliuol del Sole
     Disse un dì molto altier queste parole.

Qual più chiara progenie può trovarsi
     Di quella, che dal Sol chiaro discende?
     E se qualch’una illustre osa chiamarsi,
     Tanto illustre più fia, quanto più splende:
     Non so chi possa al mio padre aguagliarsi,
     Che vien da Giove; e sì gran lume rende,
     Che s’e’ ponesse à la sua luce il velo,
     Faria steril la terra, oscuro il cielo.

Non potè più patir quell’altro altiero
     Figliuol di Giove, e d’Inaco nepote,
     E disse à lui tutto alterato, e fiero
     Con queste acerbe, et orgogliose note.
     Come sai tu di questa historia il vero?
     Chi far del tuo parlar fede ci puote?
     Qual ragion, qual certezza à dir ti move,
     Che tu sia figlio al Sol, nepote à Giove?

Io ben con gran ragion posso vantarmi
     D’esser nato di quel, che regge il tutto.
     E di questo fan fede i tempij, e i marmi,
     Che à la mia madre son sacri per tutto.
     Ma tu per qual segnal puoi dimostrarmi,
     Che tanto illustre Dio t’habbia produtto?
     E quando anchor di ciò dessi alcun segno,
     Ti terrei forse ugual, ma non più degno.

Tu mostri ben poco sano discorso,
     Poi che ogni cosa à la tua madre credi:
     Pon per l’innanzi à la tua lingua il morso,
     Fin che maggior chiarezza non ne vedi.
     Fetonte allhor così sbattuto, e morso
     Subito mosse i suoi veloci piedi,
     E ver la madre Climene andò ratto,
     Per ritrovar il ver di questo fatto.