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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/300

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Pria le fraterne piaghe, e l’empia morte,
     Si fanno innanzi al mio vedere interno
     E l’ ira in me risuscitan si forte,
     Che vuol, ch’ io doni il mio figlio à l’inferno:
     Ma rende al rio pensier la man non forte
     De l’ infamia il timor, l’amor materno:
     E mentre dice ogn’un le ragion sue,
     Io mi consumo, e vivomi intra due.

Ma voi, per maggior mia noia, e tormento
     Cari fratei n’havrete al fin la palma,
     E forse havrò dapoi tant’ ardimento,
     Ch’anch’ io lasciar vorrò l’humana salma.
     Per fare ogn’un di voi di me contento,
     Vò far, che segua voi la sua trist’alma.
     Con questo dir volse à le fiamme il tergo,
     E diede in mezzo al foco al tizzo albergo.

Ó diede, ò parve pur, che per la doglia
     Sentendo il foco un strido il ramo desse,
     Ma la fiamma empia fe contra sua voglia
     Poi che non potè far, che non l’ardesse.
     Sentì il figlio d’Eneo l’humana spoglia
     (Benche lontan da quelle fiamme stesse)
     Ardere, e sentì anchor l’ interno petto
     Esser da foco occulto arso é et infetto.

Non sà già la cagion del troppo ardente
     Dolor, che dentro gli consuma il core,
     Pur co’l valor de l’animosa mente
     Si sforza superar l’aspro dolore.
     S’ attrista bene assai, che si vilmente
     Senza far guerra, e senza sangue more.
     Alceo chiama felice, e ogni altro Duce
     Cui tolse il rio Cinghial l’aura, e la luce.

Chiama vinto dal duolo il padre anticho,
     Ogni fratello chiama, ogni sorella,
     La compagna del letto, il fido amico,
     E più d’ognun la madre ingiusta, e fella.
     Il foco ad ambedui crudo nemico
     Distrugge Meleagro, e la facella.
     E del ramo, e de l’ huom fu il viver corto,
     Ch’un restò poca polve, e l’altro morto.

Giace l’alta città, piangon le mura,
     Versan le torri altere in copia il pianto,
     La giovenile età, l’età matura,
     La nobiltà, la plebe hà nero il manto.
     De le donne più pie la turba oscura
     Fa gir le strida al regno eterno, e santo:
     Batton le mani, e ’l sen, straccian le chiome,
     Chiamando spesso in van l’amato nome.

Il vecchio Re con grido afflitto, e lasso
     Biasma i troppi anni suoi, sua trista sorte,
     Che deve un suo figliuol chiuder nel sasso,
     Ch’era in si verde età si saggio, e forte.
     Altea, ch’al comun pianto hà volto il passo,
     E sà, ch’essa è cagion de la sua morte,
     Alza la man, che diede il figlio à Pluto,
     E piaga il tristo cor co’l ferro acuto.

S’io cento lingue havessi, e cento petti,
     E volto in mio favor tutto Helicona,
     E cento de i più rari alti intelletti,
     Ch’ in capo mai d’allor portar corona;
     Non potrei dire i dolorosi affetti,
     Onde l’alta città tutta risuona
     D’huomini, di matrone, e di donzelle,
     Ma più de le mestissime sorelle.

Deposto il gesto regio, il regio fine,
     Si danno in preda à ogni atto indegno, e insano.
     Fanno oltraggio al bel viso, à l’aureo crine,
     E percotonsi il petto, e mano à mano:
     E stando sopra lui piegate, e chine
     Chiaman sovente il nome amato in vano.
     E mentre il corpo in cener non si sface,
     Gli son tutte d’ intorno ovunque giace.

À pena il colpo in cener si risolve,
     Che ’l vaso à gara prendon, che la serra,
     E al petto stringon la funebre polve,
     Mentre, che ’l loco pio non la sotterra.
     Ma come il sasso poi gelido involve
     Le membra trasformate in poca terra,
     Da lor le strida, i moti, e ’l pianto impetra
     Lo scritto nome, e la notata pietra.