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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/302

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E levandosi alquanto alto dal seggio,
     Il braccio verso il mar tese, e la mano,
     Di gratia (disse poi) Signor ti chieggio,
     Che per tua cortesia mi faccl piano
     Il nome di quell’ isola, ch’ io veggio,
     Che mi par molto grande di lontano.
     Per farlo allhor lo Dio restar contento
     Fè risonare il ciel di quest’accento.

Un sol luogo non è, come ti credi,
     Di molto l’occhio, Teseo s’inganna,
     Che quelle son cinque isole, che vedi,
     Ma la distanza il tuo vedere appanna.
     Hor poi che, tua mercè, qui meco siedi,
     Et ogni prudent’ huom l’otio condanna,
     Ti vò contar l’origine, onde nacque
     Ciascuna di quell’isole in quest’acque.

Quelle Naiade fur di più d’un fonte,
     Antico tributario del mio fiume,
     Ch’à dieci tori già rupper la fronte,
     E quei diero à l’altare, e al santo lume.
     De la selva gli Dei tutti, e del monte
     Furo invitati, e ogni altro agreste Nume
     Al prandio, al ballo, et à l’officio pio,
     Sol’ io scordato fui, ch’era il lor Dio.

Io, che ’l disprezzo mio chiaro conosco,
     Più che non fei giamai, m’ingrosso, e sdegno,
     E d’ira, e di furor gonfio, e di tosco,
     Non sol levo al terren la biada, e ’l legno;
     Ma toglio il campo al campo, e ’l bosco al bosco,
     E gli spingo per forza al suo regno:
     Vi scaccio anchor, dimessa ogni pietate,
     Co i proprij lochi lor le Ninfe ingrate.

Le dono à pena al mare, e à me le toglio,
     Che l’onda salsa al mio voler risponde,
     E tanto face il suo co’l nostro orgoglio,
     Che diamo à quel terren novelle sponde.
     E divedendo l’un da l’altro scoglio,
     Formiam le cinque Echinade sù l’onde,
     Che quelle fur, ch’al sacrificio loro
     Negaro al nostro altar l’ incenso, e ’l toro.
     
Ma l’isola, ch’alquanto è lor distante,
     Non fu da l’ira mia donata à l’acque,
     Ma ben dal troppo crudo Hippodamante,
     Di cui la sventurata donna nacque.
     Già il suo leggiadro, anzi divin sembiante
     Tanto à le luci mie cupide piacque,
     Ch’ignuda entro al mio letto haver la volsi,
     E ’l bel nome di vergine le tolsi.

Perimele di lei fu il proprio nome,
     Hor subito, che ’l padre empio s’accorse
     Del fallo suo, la prese per le chiome,
     E su quel monte strascinolla, e corse.
     Scagliando poi le non più grate some
     Dal ruinoso scoglio al mar le porse.
     Io corsi, e d’aiutar cercai il suo nuoto,
     E dissi al Re del mar fido, e devoto.

Fratello altier di Giove, à cui la sorte
     Diede il tridente in man, che regge il mare,
     Onde noi Dei de l’onde erranti, e torte,
     Tributo ti sogliam perpetuo dare;
     Salva questa fanciulla da la morte,
     Ch’io fei per troppo amor per forza errare:
     Se ’l dritto mio maggior mai ti rendei,
     Mostrati grato à me, pietoso à lei.

Poi che l’ha tolto il core empio paterno
     D’albergar più ne la terrena riva,
     Tu, che di tanto mar tieni il governo,
     Non far, che sia nel sal d’albergo priva.
     Falla nel tuo gran regno un loco eterno,
     Si che la sua memoria almen sia viva.
     Piegò Nettuno il volto al prego fido,
     E fe tremar d’intorno il mare, e ’l lido.

Il gran romor, che più crudel minaccia,
     Le dà maggior timor, maggior sospetto,
     Pur si sostien co’l nuoto in su le braccia,
     Per non gire à trovar de l’onde il letto.
     Anch’ io, perche dal mar vinta non giaccia,
     Con man sostegno il palpitante petto.
     E ogni hor mi par sentir con più furore
     Battere à l’ infelice il polso, e ’l core.