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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/303

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Mentre per salvar lei pongo ogni cura,
     Mi par più non sentir carne, ma pietra,
     E che ’l bel corpo ogn’hor via più s’indura,
     E ch’ogni membro suo cresce, e s’ impetra.
     Tal, che l’intellettiva alma natura
     Di formarsi una nova isola impetra.
     Fatta al fin larga, et alta, e di più pondo,
     Co’l piede andò à trovar del mare il fondo.

Poi c’hebbe cosi detto il sacro fonte,
     E mostrando pietà nel volto tacque.
     Ogn’un devoto al mar drizzò la fronte,
     E venerò di cor lo Dio de l’acque.
     Sol disprezzò le maraviglie conte
     Quel, che fratel de rei centauri nacque;
     Ne creder volle à le cangiate forme,
     Se ben più d’un fratel vide biforme.

La stirpe, ch’à schernir Peritoo sforza,
     Non men gli Dei del suo padre Issione,
     Fè, che (disse) Acheloo troppo gran forza
     Doni al fratel di Giove, e di Plutone,
     Se vuoi, che possa altrui cangiar la scorza,
     E donar altre forme à le persone.
     E ’l modo, e ’l riso, e ’l mover de le ciglia
     Empiè ogn’un di terrore, e maraviglia.

Sdegnossi il fiume entro al suo core alquanto,
     Ma non ne diè già ne la fronte aviso,
     Che cercando honorar Teseo più santo,
     Sofferse dal suo amico esser deriso.
     C’havrebbe forse à lui per mostrar quanto
     Far puote un Dio, cangiato il senno, e ’l viso,
     Ma Lelege, più vecchio, e al ciel più fido
     Cercò l’empio far pio con questo grido.

Del ciel la forza ogni potenza eccede,
     Ciò, che voglion gli Dei, Peritoo, fassi.
     E poco ha fido il cor colui, che crede,
     Che non posson cangiar in piante, e ’n sassi.
     E per farti di ciò più certa fede
     Sappi, ch’un’alta quercia in Frigia stassi,
     Ch’appresso ad una tiglia i rami suoi
     Stende, c’huomini fur’, come hor siam noi.

Oltre la tiglia è l’arbor de le ghiande,
     Dove la forma à due già fu cangiata.
     V’è un’altra maraviglia non men grande,
     Una palude in un momento nata.
Ú la Folice, e ’l Mergo hor l’ali spande,
     E già fu fertil terra, et abitata.
     Mi vi mandò mio padre, e vidi, e intesi
     Quel, che per ben comun vien, ch’ io palesi.

Lascia il Signor celeste un giorno il cielo
     Per voler fare esperlenza in terra,
     Se l’huom ver la pietate acceso ha il zelo,
     Ó s’à la caritate il passo serra.
     E preso d’huom mortal l’aspetto, e ’l pelo,
     Ne l’Asia in Frigia co’l figliuol s’atterra.
     E mostrano cercando à l’altrui porte,
     Ch’impoveriti sian da l’empia sorte.

Poco à Mercurio l’eloquentia giova
     Nel raccontar la lor fortuna adversa:
     À mille, e mille porte si fa prova,
     Per tutto la pietà trovan dispersa.
     Ne fra mille, e mille huomini si trova
     Un, che non habbia l’alma empia, e perversa.
     Ogn’un nega al lor vetro, et al lor sacco
     (Benche n’abondi assai) Cerere, e Bacco.

Al fine ad una picciola capanna
     L’ascoso Re del ciel co’l figlio arriva,
     La qual di paglia, e di palustre canna
     E da lati, e di sopra si copriva.
     Quivi scoprendo il duol, che ’l core affanna
     La vera carità ritrovar viva,
     Fur da Fileno, e Baucide raccolti,
     Ch’eran consorti già molti anni, e molti.

Da lor la povertà, ch’ogn’uno abhorre,
     Con lieto, e santo cor sofferta fue,
     Di quel, che manca l’un, l’altro soccorre,
     E giova à due con le fatiche sue.
     Servi, e Signor cercar lì non occorre,
     Tutta la casa lor non son, che due.
     Quel, che comincia l’un, l’altro al fin manda,
     E da due s’obedisce, e si comanda.