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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/318

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Facciam larga la lotta, e ogn’un le piante
     Ben fonda in terra, e stassi in su l’aviso.
     Egli mi spinge, e mentre io sto costante,
     E lui rispingo, mi coglie improviso,
     E con gran scossa à se co’l capo avante
     Mi tira, e fui per dare in terra il viso,
     Con tal forza ver se la scossa diede,
     Pur la gravezza mia mi tenne in piede.

Ci ritiriamo alquanto ogn’un da parte,
     Per interrar la ruggiadosa palma:
     Dapoi torniam di novo al fero Marte,
     E ci abbracciam per riportar la palma.
     Gamba ei con gamba annoda, e con quest’arte
     Cerca atterrar la mia più grave salma,
     E poi, che questa lotta non gli giova,
     Diversi modi un dopo l’altro prova.

Come il furor de l’onde il duro scoglio
     Ribatte, e ’l peso proprio il fa sicuro:
     Cosi ribattev’ io l’acceso orgoglio
     D’Alcide, e stava ponderoso, e duro.
     Un’altra volta anchor da lui mi scioglio,
     E poi di raffrontarlo m’assicuro;
     E in questo membro, e in quello il pugno incarno,
     E cerco d’atterrarlo, e sempre indarno.

Come toro con toro ardito, e forte,
     E due, e tre volte ad incontrar si torna,
     Per guadagnar frà molte una consorte,
     Ch’assembra lor d’ogni belta più adorna;
     Stan gli armenti à guardar la dubbia sorte,
     E chi di lor più dure havrà le corna,
     Chi farà il ciel de la vittoria degno
     Di tanto amato, e pretioso regno:

Cosi ciascun di noi per quella sposa,
     Che ne par sopra ogni altra unica, e bella.
     Si stacca due, e tre volte, e poca posa,
     Che cerca d’attaccar pugna novella.
     Il padre de la vergine amorosa
     Stava intento à mirarci, e v’era anch’ella.
     E con la corte sua stava in pensiero
     Chi la vittoria havria di tanto impero.

Fà tanto al fin, ch’al mio collo s’appiglia,
     E con le forti man l’annoda, e tira.
     Mi guasta la corona, e mi scapiglia,
     E già si forte à la vittoria aspira,
     Ch’ogn’un, ch’è intorno, mormora, e bisbiglia,
     Ch’io perderò la lotta, e Deianira:
     Che le sue man, che fean chinar la fronte,
     Tal peso havean, ch’era men greve un monte.

Respirar non mi lascia, e ogni hor più il collo
     M’aggrava, e con maggior vigor l’afferra.
     Io pur m’aiuto, e m’affatico, e crollo,
     Perche l’honor non habbia ei de la guerra.
     Qui convien dire il ver, l’ultimo crollo,
     Ch’egli mi diè, mi fè baciar la terra.
     E non senza rossor di rabbia acceso
     À giacer mi trovai lungo, e disteso.

Tosto, che di cadere Hercol mi sforza,
     À l’arte propria mia la mente intendo,
     E se ben sono inferior di forza,
     Non però mi pacefico, e m’arrendo.
     Mi cangio quella, c’hor mi vedi, scorza,
     E d’un crudo serpente il volto io prendo,
     E di man gli esco sibilando, e ardente,
     E gli armo contra à un tratto il tosco, e ’l dente.

Quando un dragon mi scorge essere Alcide,
     E contra il suo valor movere altr’arme,
     Mi guarda, e schiva il mio morso, e sorride,
     E mi dice. Acheloo, che credi farme?
     Fanciullo essendo anchor mia madre vide,
     Ch’ io seppi da due serpi liberarme.
     Questa tua forma à la mia destra è nulla,
     Ch’i serpenti domai fin ne la culla.

E ben, che si gran serpe hora ti mostri,
     Ch’i più lunghi dragon vinci d’assai,
     Qual parte sarai tu de crudi mostri,
     Ch’ io nel lago Lerneo vinsi, e domai?
     Tu con un capo sol qui meco giostri,
     L’Hidra cento n’havea, ne la stimai;
     E per ogn’un, ch’ io ne troncai di cento,
     Ne vidi nascer due di più spavento.