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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/330

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Volli io, che v’era, far lo stesso, e porsi
     La man per corre un ramuscel col fiore,
     Ma dove ruppe Driope, il ramo scorsi,
     Che spargea il sangue à spesse goccie fuore.
     Com’io di tanta novità m’accorsi,
     Divenni un giel, tremò la mano, e ’l core:
     Il fusto, e i rami suoi tremar non manco,
     E venne il fior purpureo infermo, e bianco.

Loto una Ninfa era in quel tronco ascosa,
     Secondo poi contaro i tardi agresti,
     Che senza farla il Re de gli horti sposa
     Volle seco tentar gli atti inhonesti.
     Ella à la parte eterna, e gloriosa
     I preghi suoi mandò santi, et honesti.
     In quel troncon gli Dei l’humane some
     L’ascoser, che di lei poi tenne il nome.

Come la mia sorella il ramo schianta,
     E che si vede insanguinar la palma,
     Che non sapea, che la fiorita pianta
     Desse nel sangue il proprio albergo à l’alma:
     Chiede perdon con prece honesta, e santa,
     Poi svolger vuol da lei la carnal salma,
     E nel girar del corpo, e de la testa,
     Trova, ch’una radice il piè l’arresta.

D’alzar pur ella il piè si prova, e sforza,
     Ma comportar no’l vuol l’avida terra:
     Anzi le barbe sue fa con più forza
     Abbarbicarsi, e penetrar sotterra.
     Già il novo legno, e l’importuna scorza
     Le gambe in un troncone asconde, e serra.
     Più ogn’hor la carne, e ’l sangue si disperde,
     E trave, e scorza vien succosa, e verde.

Quando ella guarda, e vede il crudo effetto,
     Che sotto novo manto i piedi asconde,
     Con l’una mano accosta il figlio al petto,
     Vuol con l’altra stracciar le chiome bionde,
     E trova d’ira accesa, e di dispetto,
     Che trahe dal crin la man piena di fronde:
     Poi che dal ramo il crin si vede tolto,
     Fa più, che puote oltraggio al seno, e al volto.

Il picciol figlio, à cui dier nome Anfiso,
     Che sol co’l pianto pio, chiede, e favella,
     Al suo solito seno accosta il viso,
     E sugge in van la ruvida mammella.
     Tutto vidi io, ma qual prendere aviso
     Per salvar te potea cara sorella?
     Pur con le braccia pie ti tenni avinta,
     E teco esser bramai dal tronco cinta.

Col nostro padre in questo il suo consorte
     Giunser, che ’l camin nostro havean seguito.
     Chieggon di Driope, et io l’empia sua sorte
     Breve racconto, e lor l’arbore addito.
     Subito al pianto, e al grido apron le porte
     Gli sconsolati suoi padre, e marito.
     Le braccia danno al mezzo arbore intorno,
     Baciando il viso anchor bello, et adorno.

La sventurata Driope, come vede
     Versar da gli occhi in tanta copia il pianto
     Al padre, à la sorella, à chi le diede
     Già per consorte il matrimonio santo;
     Con l’occhio, ch’ancor libero possiede,
     Sparge un rivo maggior su’l novo manto.
     E poi ch’al dir la via non l’è anchor chiusa,
     Con questo amaro duol se stessa scusa.

Vi giuro per l’eterno alto motore,
     Ch’io non ho fatto à quella Ninfa torto,
     E ch’innocentemente io colsi il fiore,
     E contra ogni ragion tal pena io porto.
     S’ io mento, piova in me tanto d’ardore,
     Che resti l’arbor mio sfrondato, e morto;
     E l’huom, che primo arriva in questo loco,
     M’offenda con la scure, e doni al foco.

Prendete in tanto il mio picciolo infante,
     Che nel ruvido sen, non ben sostegno,
     Che servando il costume de le piante,
     Le man son rami, e al ciel s’alzan di legno.
     Pur tengamel qualchun sempre davante,
     Mentre il molle occhio mio del lume è degno;
     E fate poi, che sotto à questa frasca
     La nutrice, c’ havrà, sovente il pasca.