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S’io provo nel vegghiar noia, e tormento,
Che ’l mio error vero scorgo empio, e mortale,
E se ne la quiete ho il cor contento,
E un piacer finto annulla ogni mio male,
Sia tutto finto ciò, ch’io veggio, e sento,
E ’l ver lunge da me dispieghi l’ale:
Et ogni opra, ch’ io scorgo, ò d’altri, ò mia,
Sia tutta fittion, tutta bugia.
Ó s’ io finger potessi in qualche modo,
Dolce amor mio, di non t’esser sorella,
Co’l dolce d’Himeneo legame, e nodo
Godrei la vista tua soave, e bella.
Che la beltà, che tanto ammiro, e lodo,
Non saria ver la sposa empia, e rubella.
Ne spregieresti farti al padre mio
Genero, ch’è figliuol del più bel Dio.
Ohime, perche non fer gli eterni dei
Fra noi comune ogni fortuna, e cosa
Da padri in fuor, che ben trovar saprei
Modo da farmi à te compagna, e sposa?
Ó che rara fortuna havrà colei,
Beata sopra ogni altra, e gloriosa,
Che godrà le tue membra alme, e leggiadre,
Mentre far la vorrai consorte, e madre.
Hor, che importano, ohime, che dir vorranno
L’imagini, che ’l sonno mi dipinse?
Han forsi i sogni forza? e se pur l’hanno,
Qual forza ha quel, che col mio amor mi strinse?
Se fessero i mortai quel, ch’ in ciel fanno,
Io potrei giudicar, che ’l ver mi finse,
Che ’l sogno, ch’al mio amor stretta m’avolse,
I futuri Himenei dimostrar volse.
Ma poi che non è lecito à mortali,
Che co’l fratel la donna s’accompagni,
Voglion dir forse i miei venuti mali,
Che di già fan, ch’ io mi lamenti, e lagni.
E dier luogo à gli affetti almi, e carnali,
Perche di maggior pianto il volto io bagni.
E m’han fatto goder di tanta gioia,
Perche priva di lei senta più noia.
Quanto è miglior de la terrena legge
Quella, che serva la celeste corte,
Che per quel, che di lor chiaro si legge,
Sposan le lor congiunte d’ogni sorte.
Volle quel Dio, che l’universo regge,
De la sorella propria esser consorte.
Fe sposa Opi Saturno, e l’Oceano
S’unì con Teti, e pur l’era germano.
Ma che cerco io dal ciel prendere essempio?
Non son fra ’l cielo, e noi le ragion pari.
Non dobbiam venerar nel divin tempio
L’opre de gli alti Dei su i loro altari.
Ma à voler fare un’ atto infame, et empio,
Da quel, che fan gli Dei, già non s’ impari.
Che dar non ponno i nostri animi erranti
Ragion de lor misterij eterni, e santi.
Io vò per ogni via scacciar dal core
Questo nefando, e scelerato affetto.
Ó se far no’l potrò, cresca il dolore,
E de l’aura vital privi il mio petto.
Che senza biasmo mio, senza disnore
Quando sarò dentro al funebre letto,
Del mio dolce fratel l’ostro, e ’l cinabro
Darà gli ultimi baci al morto labro.
Hor sù poniam, ch’ io discacciar non voglia
Dal petto il folle amor, che ’l punge, e fiede;
Convien, che in un voler cada la voglia
Di due, se vuole Amor la sua mercede.
Come farà il desio, ch’à ciò m’ invoglia,
C’habbia l’amato mio la stessa fede ?
Parrà à me giusto, e ’l pregherò, che m’ame,
Nefando à lui, ne vorrà farsi infame.
Son saria però il primo, il quale osasse
Nel letto entrar de la sorella propia.
Si dice pur, che Macareo v’entrasse,
E ch’ella del suo amor le fesse copia.
E s’anchor Bibli il suo fratel tentasse,
Forse di se non li farebbe inopia.
Ma stolta, che vado io cercando essempi,
Che son da ognun tenuti infami, et empi?